Le alghe sono per lo più sinonimo di inquinamento e sporcizia. Al contrario, rappresentano la più grande risorsa naturale ad oggi inutilizzata, un vero e proprio tesoro che ci consentirebbe di “nutrire l’umanità, sostituire la plastica, decarbonizzare l’economia, raffreddare l’atmosfera, ripulire gli oceani, ricostruire gli ecosistemi marini e contribuire alla creazione di una società giusta, fornendo lavoro alle popolazioni costiere”. È la tesi di un libro scientifico e insieme avvincente scritto da Vincent Doumeizel, consulente per le tematiche relative agli oceani presso il Global Compact delle Nazioni Unite e direttore del programma alimentare per la Lloyd’s Register Foundation, La Rivoluzione delle Alghe (Aboca).

Un mercato da 15 miliardi, da cui l’Europa è fuori

Le alghe hanno caratteristiche speciali: si riproducono velocemente e crescono di qualche metro al giorno senza bisogno di nutrimento, acqua dolce e pesticidi, si adattano a qualsiasi ambiente e latitudine. Senza di esse, non ci sarebbero molluschi e fauna marina ma soprattutto l’oceano non assorbirebbe anidride carbonica.

Questi vegetali marini, di cui si contano dodicimila specie, sono stati messi in secondo piano dagli europei che infatti non li coltivano, a differenza degli asiatici: basti pensare che oggi il 98% dei 35 milioni di tonnellate vendute in tutto il Pianeta proviene da coltivazioni lungo le coste asiatiche. Un mercato che nel 2019 ha toccato 15 miliardi di euro, con una crescita annuale dell’8%. Oggi sono prodotte in 48 Paesi ed esportate ovunque. Nonostante ciò, gli oceani, che coprono il 71% della superficie terrestre, contribuiscono solo al 2% della nostra alimentazione. Ecco perché, secondo l’autore, coltivando alghe potremmo nutrire il Pianeta, ovviamente integrando, non sostituendo, la nostra alimentazione (già in Giappone rappresentano il 10% dell’apporto nutrizionale quotidiano).

Servirebbe dunque la creazione di un sistema acquicolo realmente dotato di capacità rigenerativa, che includa l’allevamento di pesci e molluschi. Il modello si chiama Acquacoltura multitrofica integrata o permacultura marina o 3D farming e appunto consiste nell’allevare i pesci accanto a coltivazioni di alghe e invertebrati in modo da riprodurre ecosistemi simili a quelli che esistono in natura.

Bombe nutrizionali. Anche per nutrire pesci e animali

C’è di più: le alghe sono “vere bombe nutrizionali, ricche di fibre e micronutrienti”, povere di grassi, contengono vitamine A, C e B12, e ferro, iodio, magnesio, fosforo e zinco, oltre che gli omega-3 a catena lunga. Si possono aggiungere ai nostri piatti anche disidratate, perché conservano le loro proprietà, non si degradano nel trasporto né hanno bisogno della catena del freddo o imballaggi di plastica. Oggi sono reperibili ovunque nei negozi e persino ipermercati e molti chef le hanno inserite nelle loro ricette. Tuttavia, le norme che in Occidente regolano i prodotti a base di alghe sono difformi, confuse e mal documentate. L’unico rischio sanitario da considerare riguarda il contenuto di mezzi pesanti come il cadmio, il piombo e l’alluminio, per cui non vanno consumate alghe raccolte in aree inquinate, ma in questo caso tuttavia non possono essere messe sul mercato.

Ma le verdure di mare sono “super alimenti” che possono essere interessanti anche per gli animali. Consentono infatti di nutrire meglio gli allevamenti terrestri e stimolare le piante per “spandimento”. Le alghe potrebbero quindi essere utili nella piscicoltura per nutrire i pesci e se non bastano per le specie carnivore si possono usare come additivi per favorirne la crescita e rafforzare il sistema immunitario, riducendo l’uso di antibiotici, anche negli allevamenti animali.

Possono sostituire i pesticidi e la plastica. E produrre energia

Alcuni tipi di alghe, inoltre, permettono anche di ridurre le emissioni di gas serra nocivi, come il metano: incorporando anche in piccola quantità una piccola alga rossa tropicale nel regime alimentare dei ruminanti si potrebbe ridurre l’80 delle loro emissioni di metano.

Ma le alghe hanno anche ulteriori preziose funzioni: possono facilmente sostituire prodotti associati al petrolio, come cotone, plastiche e altri materiali compositi ad alta impronta carbonica. Le nuove tecnologie permettono di ottenere da esse una bioplastica sana, riciclabile e persino commestibile. Esistono anche cannucce e bicchieri prodotti da alghe rosse.

C’è poi il settore energia: le alghe spesso vengono usate come combustibile. Inoltre è possibile creare un biocarburante a base di alghe, anche se ancora il rendimento è limitato e i costi ancora proibitivi. E in ogni caso resta il dilemma se produrre energia o nutrire la popolazione.

48 milioni di chilometri quadrati per coltivarle

Serve un’alleanza tra il mondo della ricerca e quello dell’industria, perché la posta in gioco è alta. Occorre approfittare di una “risorsa sostenibile, viva, proteiforme, disinquinante, biodegradabile, locale, negativa quanto a emissione di anidride carbonica e sulla quale c’è ancora molto da scoprire”.

Ma in conclusione, dove coltivare le alghe? Le risorse d’acqua dolce sono limitati, gli oceani coprono invece 361 milioni di chilometri quadrati, anche se le alghe hanno bisogno di fonali rocciosi, una certa temperatura e profondità. Secondo l’Università di Santa Barbara, in California, resterebbero 48 milioni di chilometri quadrati, attualmente la coltivazione ne copre meno di 2000, lo 0,004% della superficie teoricamente sfruttabile.

L’altro rischio da non correre, sottolinea il libro, è quello di cadere nelle derive industriali dell’agricoltura da monocoltura su vasta scala, ultrameccanizzata e chimica. Anche nel caso delle alghe, mantenere la diversità genetica è essenziale.

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