di Priscilla Robledo, Campagna Abiti Puliti

Il settore della moda negli ultimi venti anni ha raddoppiato la produzione nel mondo. Ma nasconde milioni di persone, l’85% delle quali donne, spesso molto giovani, che guadagnano salari al di sotto della soglia di povertà, lavorando in condizioni di schiavitù. L’industria della moda si piazza al secondo posto per stima di persone ridotte forzatamente al lavoro secondo il Global Slavery Index 2023, in fabbriche poco sicure e in assenza di tutele sindacali. Il tutto per produrre miliardi di tonnellate di vestiti di scarsa qualità, attingendo in modo irresponsabile alle risorse naturali.

Nel settore moda, lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente è strutturale: l’azienda committente, spesso multinazionale, macina profitti mediante pratiche commerciali aggressive, comprime i costi della merce, costringe i fornitori (e quindi lavoratori e lavoratrici) a cicli di produzione continui, approfitta del fatto che in molti paesi del mondo mancano diritti. E anche in Italia, nel 2024, sono già tre i casi acclarati di caporalato nella produzione di moda di lusso.

Nei prossimi anni questi comportamenti aziendali predatori non saranno più (forse) impuniti. Nella legislatura europea appena conclusa, diversi provvedimenti normativi mettono dei paletti alla mano invisibile del mercato. Fra le più importanti, la Direttiva sulla Due Diligence Aziendale Sostenibile, che si ispira ai Principi Guida dell’Onu su Impresa e Diritti Umani e alle Linee Guida Ocse sulla Condotta delle Imprese Multinazionali. Concluso l’iter di approvazione a fine maggio 2024, nelle prossime settimane la direttiva sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale dell’Ue ed entrerà in vigore dal 2026.

Il testo obbliga le aziende committenti a comportarsi con ‘diligenza’ nella gestione delle filiere, adottando e implementando un piano ad hoc. L’obiettivo? Verificare che nelle fabbriche le condizioni di lavoro siano legali e idonee, che i propri fornitori rispettino i diritti umani e del lavoro (orari, parità salariale, libertà di associazione sindacale, salari dignitosi, no a lavoro minorile o informale), che le proprie pratiche di approvvigionamento e pagamento permettano ai fornitori una gestione aziendale stabile, capacità di pianificazione finanziaria e salari adeguati, la messa in sicurezza delle fabbriche e la gestione sempre diligente di subfornitori e appaltatori. Gli obblighi di diligenza sono obblighi di comportamento, non di risultato: non si chiede che l’azienda committente risolva tutti i problemi sulla filiera ma che si comporti con la dovuta diligenza. Se viene identificata una violazione dei diritti umani in un determinato contesto di fabbrica, l’azienda committente è chiamata ad adoperarsi insieme al fornitore per mitigarla o risolverla. Se non c’è modo di risolverla, è compito dell’azienda dismettere il fornitore, tenendo conto dell’impatto sui suoi dipendenti.

La direttiva introduce anche un regime di responsabilità, permettendo alle vittime di violazioni aziendali e disastri ambientali da esse derivanti di ottenere un risarcimento in sede civile nel Paese Ue dove ha sede l’azienda committente. Parallelamente alla tutela giudiziaria, la direttiva prevede altre due vie per ottenere giustizia nei confronti delle aziende. Da un lato impone alle aziende stesse di mettere a disposizione dei lavoratori delle proprie filiere meccanismi di conciliazione e reclamo, dall’altro introduce una autorità di controllo indipendente con poteri ispettivi e sanzionatori, che potrà ricevere segnalazioni anche da parte di terzi, come media o associazioni no profit. L’Italia non ha una autorità amministrativa indipendente sui diritti umani: vedremo cosa deciderà il governo.

Gli obblighi della direttiva si applicheranno, per ora, solo alle aziende con almeno mille dipendenti e 450 milioni di euro fatturato per due anni consecutivi. In Italia, sono 767, fra cui molti colossi della moda. Nonostante il numero esiguo, il perimetro della responsabilità riguarderebbe tutta la filiera, con ricadute positive sui fornitori anche piccoli e medi.

La direttiva Due Diligence ha avuto un iter sofferto, negoziati lunghi, svolte (a destra) improvvise, un’intensa attività di lobbying da parte del business e del terzo settore. Il risultato è un testo impoverito rispetto alla proposta iniziale ma un primo passo verso un cambio di paradigma significativo in ciò che ci si aspetta da una azienda: non solo profitti ma anche di non fare danni, al pianeta e alle persone.

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