I laburisti conquistano 410 seggi su 650, andando ben oltre la maggioranza assoluta e sfiorando il record di 419 conquistati da Tony Blair. I conservatori sono terremotati: conquistano solo 119 seggi (mai così male, il minimo erano stati 156 nel 1906) ma restano il primo partito di opposizione. Il premier uscente Sunak: "È stata una notte difficile"
Un trionfo, una valanga che chiude quasi tre lustri ininterrotti di governo conservatore nel Regno Unito. I Laburisti vanno oltre ogni più rosea previsione: vincono nettamente le elezioni generali e conquistano 412 seggi su 650, andando ben oltre la maggioranza assoluta e sfiorando il record di 419 conquistati da Tony Blair. I Tories sono terremotati ma, quantomeno, evitano l’estinzione guadagnando circa 121 seggi (mai così male, il minimo erano stati 156 seggi nel 1906) e restano il primo partito di opposizione visto che i Liberaldemocratici di Ed Davey si fermerebbero a 71 secondo i dati della notte. Più indietro i Nazionalisti scozzesi che crollano da 48 rappresentanti a 9 e fanno dire all’ex first minister indipendentista Nicola Sturgeon che è la “più nera delle previsioni”, quindi Sinn Fein con 7 e Reform Uk di Nigel Farage che entra in Parlamento con 4 scranni all’ottavo tentativo. A conti fatti, rispetto all’ultima chiamata alle urne, i Labour raddoppiano i propri seggi mentre i Conservatori ne perdono circa 220, almeno in parte a favore dei Lib-Dem. Lo scarto tra Laburisti e Tory consegna alla leadership di Keir Starmer il secondo più ampio distacco dal primo partito di opposizione nella storia del Regno Unito. Dato interessante anche quello sull’affluenza che si prospetta essere la più bassa registrata da oltre vent’anni con il 59,8%, mentre alle ultime elezioni nel 2019 l’affluenza complessiva era stata del 67,3%.
Il Regno Unito controcorrente – Insomma, se in Europa continentale c’è chi guarda a destra, l’isola della Brexit sterza stavolta in direzione opposta: verso il centro se non proprio a sinistra, tornando ad affidarsi al Labour – sotto la guida moderata di Starmer – dopo 14 anni di governi Tory. Lo spoglio notturno delle schede delle elezioni britanniche riguarda ormai solo i numeri – i definitivi sono attesi a inizio mattinata – destinati a fissare le dimensioni del trionfo laburista, frutto anche e soprattutto dell’annunciatissima disfatta dei conservatori del premier uscente Rishi Sunak, travolti da una batosta di portata storica prossima a un annichilimento epocale, come da indicazioni unanimi della vigilia. Sunak, rieletto nel collegio di Richmond and Northallerton (North Yorkshire) ha ammesso la sconfitta all’alba: “È stata una notte difficile per i conservatori. Ringrazio gli elettori per il sostegno, non vedo l’ora di continuare a servirli. Il partito laburista ha vinto, ho chiamato Keir Starmer per congratularmi con lui”.
La fine del quindicennio dei Tories – La scommessa kamikaze di Sunak è stata insomma un fallimento: in Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord c’è stato un diffuso rigetto da fine ciclo del partito di governo uscente più che della capacità d’attrazione dell’offerta programmatica – prudente quanto vaga – starmeriana. Scenario che si traduce ad ogni buon conto in una svolta generazionale. Nella fine di quasi tre lustri di governi a guida conservatrice segnati da crisi, scossoni, scandali, lacerazioni interne e cambiamenti di leader, fra responsabilità proprie e conseguenze di terremoti internazionali; oltre che dai contraccolpi – almeno per ora largamente negativi – di quella sorta di gioco di prestigio che è stato il referendum del 2016 sul divorzio dall’Unione europea, sfociato nella Brexit. Una svolta che si consuma nel nome del ritorno alla normalità, caratteristica per ora dominante del profilo da ex procuratore della corona prestato alla politica del 61enne Starmer.
Il ‘soft left’ di Starmer – La super maggioranza in Parlamento lascia del resto se non altro margini di manovra all’uomo incaricato di riportare le insegne del laburismo a Downing Street dai tempi di Tony Blair e Gordon Brown. Un uomo nato politicamente nella corrente intermedia della ‘soft left’, salvo spostarsi passo dopo passo su posizioni sempre più centriste, il quale tuttavia promette di lavorare a un miglioramento più equo delle condizioni di vita della “gente comune” come antidoto alla “minaccia populista”. Sebbene escludendo di voler cavalcare i contrasti sociali o riaprire ferite come la stessa Brexit, a cui fu a suo tempo contrario, ma che adesso non intende rimettere in causa.
Da dove ripartono i Labour? – Le priorità programmatiche immediate riguarderanno semmai l’avvio accelerato d’iniziative legislative ordinarie su temi ecumenici quali “la stabilità e il rilancio dell’economia”, la sanità, l’edilizia pubblica, la sicurezza e il contrasto (senza piano Ruanda) “dell’immigrazione illegale”. In un contesto, già benedetto dalle prime reazioni rilassate dei mercati e del business, a cui si affianca l’impegno alla continuità sulla trincea dei conflitti internazionali – sostegno senza quartiere all’Ucraina in primis – e alla lealtà a Usa e Nato. Mentre ai Tories toccherà ripartire dal baratro, con un nuovo leader dopo l’addio inevitabile di Sunak.
La scomparsa dei ministri Tories – Le proporzioni del disastro conservatore è tutto racchiuso nei ‘big’ del partito che perderanno il seggio. Tra loro, il cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt: secondo gli exit poll, è il Tory di più alto profilo destinato a rimanere escluso, con i Lib-Dem che sembrano destinati a conquistare il suo seggio nel collegio di Godalming and Ash. Grant Shapps, ministro della Difesa, ha perso nel suo collegio e una sorte simile potrebbe toccare a Johnny Mercer, dei Veterani. In bilico, secondo gli exit poll, pure Mark Harper (Trasporti), Mel Stride (Lavoro e pensioni), Steve Barclay (Ambiente) e Penny Mordaunt (leader dei Comuni).