Più che gramsciano poeticamente dannunziano, ma soprattutto antivannacciano e antiberlusconiano. È davvero curioso il rapsodico saggio Gramsci è vivo (Rizzoli) scritto da Alessandro Giuli. Quasi che fosse improvvisamente suonato l’allarme “stati generali” della destra italiana prima che evapori il governo Meloni (“la destra disomogenea al potere”, scrive l’autore). O ancora meglio: il deside rio vivace e sentito di riformulare con urgenza una linea teorico filosofica a destra prima che il solito dibattito sulle colonne dei giornali di centrosinistra se ne appropri piazzandogliene una. Gramsci è vivo va quindi inteso non tanto come una improvvisa rivalutazione del concetto rivoluzionario di gramsciana memoria dell’ “egemonia culturale”, che Giuli mette da parte (ne riparliamo più avanti), o all’affermazione che farebbe giustamente rivoltare nella tomba il comunista sardo (“la dialettica tra capitale e lavoro oggi è totalmente superata (…) dalla trasformazione tecnologica delle società” sic); quanto la spinta ideale necessaria a destra del riappropriarsi di quella fervida e proficua dimensione dialettica dell’intelletto, e dell’intellettuale, di cui Gramsci diede sfoggio quasi epico, per presentarsi di fronte alle pagine dei libri di storia oltre l’iconografia tolkeniana e i fantasmi strascicanti del fascismo.
E, a dire il vero, Giuli, nella propria “destra che vorrei”, il “Ventennio” lo liquida in fretta: “Il giudizio politico sul tragico e nefasto esperimento fascista non si presta a tante sfumature. È negativo, punto e basta”. L’autore mette da parte anche l’esperienza leghista del candidato tradizionalista e antieuropeista Vannacci (“urge una destra capace di affermare se stessa illuministicamente e neutralizzare ogni sintomo di recidiva novecentesca reincarnatasi nel «terribilismo» assertivo degli ultimi arrivati, e di cui le recenti varianti «vannacciste» non rappresentano altro che vanagloriose e infantili declinazioni”) come il ventennale potere berlusconiano. Il Cavaliere, infatti, risulta l’ennesimo anello ostruttivo, benché gravido di seggioline da spoil system dagli anni novanta anche per gli ex missini, di un conflitto novecentesco destra-sinistra (“la retorica delle opposizioni binarie”, per il Cav anticomunismo e antiberlusconismo) che per Giuli va “superato”.
Insomma, quali sono i desiderata del neo presidente della Fondazione MAXXI di Roma? L’antipasto lo traiamo subito dalla nuova frattura in via di ricollocamento tra progressisti e conservatori dei diritti civili. “È lecito affermare che la Storia è in credito con la comunità arcobaleno; ciò non significa, è ovvio, che non si possa – come nel nostro caso – affermare l’invalicabilità delle identità sessuali (tutte le identità sessuali) e dei corrispondenti ruoli nella società naturale e nella cultura civile”, scrive Giuli che successivamente attacca la sinistra degli steccati, quella “woke” e della “cancel culture”: “gabbie che snaturano il passato, tendono ad attualizzarlo in maniera acritica, e a leggere la contemporaneità con lenti astoriche”. Dopodichè ecco l’impianto generale. “Una destra moderna matura e plurale, sociale nella difesa degli esclusi, degli impoveriti e dei deboli dimenticati dall’umanitarismo inconcludente dei ceti dirigenti al potere negli ultimi decenni. Una destra liberale nella promozione dell’intrapresa privata e nella promessa di proteggere la libertà di creare ricchezza prima di prefigurarne una redistribuzione più equa”.
E per sottolineare una radice sostanzialmente da liberalismo ottocentesco, più alla conservatorismo inglese che alla destra storica sabauda, Giuli tira fuori dal cassetto alcune citazioni da brividi, ovvero di Giuseppe Bottai (colui che votando contro Mussolini il 25 luglio del 1943 spiegò “in un giorno assieme a Dino Grandi provammo a porre rimedio a tutte le malefatte del regime post 1936”). “La destra dovrà chiarire come il liberalismo economico abbia ragione di opporsi allo statalismo grossolano e massiccio che non persegue l’interesse dei più ma quello dei pochi”, scrive Giuli citando la biografia dell’ex gerarca datata 1958. Affermazione peraltro inconfutabile in tempi di austerità europea galoppante. Detto ciò l’impianto politico generale della riflessione giuliana non sembra proprio vivere di cieco europeismo alla Draghi o Gentiloni perché si parla comunque di “rispetto di eventuali clausole di supremazia costituzionale rivendicate da ciascuno Stato contraente”, come di un affascinante, autonoma e molto matteiana funzione geopolitica “euroafricana” dell’Italia. Mentre il sentimento di identità nazionale deve rifarsi alle radici costitutive dell’Antica Roma (“forza generativa dinamica”), a quel genus mixtum, che la fece nascere e progredire, “originato da popolazioni culturalmente omogenee ma etnicamente differenti, sempre aperto all’ingresso dell’«altro da sé» come figura di arricchimento di una koiné aperta e anti genetica che richiedeva agli stranieri un contatto profondo con il genio del luogo acquisito”.
Del resto, continuando il paragone con i figli della lupa, “il segno” del “confine” si può spostare (i “nuovi solchi”, le “strade consolari”) perché lo stesso discorso può essere fatto per “l’identità”: “il lavoro spirituale necessario per conoscerla, rispettarla e renderla capace di esporsi al confronto con il mondo esterno non implica affatto una resistenza al cambiamento”. È da qui che si attua lo strappo educato e colto di Giuli rispetto al “tutt’uno fascista delle destre” tanto caro alla “retorica antifascista spuntata della sinistra”. Dopo aver spolverato le radici storico-politiche per una nuova destra, il presidente del MAXXI pone al centro la funzione del “dialogo” – “sui migranti, sull’intelligenza artificiale, sul surriscaldamento globale” – all’interno di un concetto di “reciproco riconoscimento della Costituzione del ’48”, per poi fare un passo di traverso proprio nell’esercizio, oramai superato, dell’egemonia culturale. Non è più tempo di casematte – “check point di terra contesa da difendere a colpi di mortaio”. Siano invece, le gramsciane e togliattiane casematte (“giornali, scuole, tribunali”) “al contrario, porte d’accesso, punti di snodo del dibattito pubblico” perché, spiega con uno slancio quasi autolesionista, “saranno poi le idee a darsi, liberamente, battaglia”. Giuli pone infine, con finta ingenuità, una domanda che pare ribaltare il tavolo dello spoil system modello Rai, istituzioni museali, spazi culturali in genere. Fermo restando che si può essere “imparziali ma non neutrali” è possibile che “il lavoro culturale” possa esistere “obliquo rispetto alle direttive di partito”?. Interrogativo legittimo e necessario. Ora bisogna vedere, tra le forze politiche in campo, a chi porlo.