Musica

Paul Sears, dalle collaborazioni con Britney Spears, Madonna e Benny Benassi all’opera “digitofisicomusicale”: il manager che lanciò la disco music anni ’80 si racconta a FqMagazine

Dal dietro le quinte al palcoscenico: l'iconico manager ed editore del mondo della musica ha messo in scena la sua ultima opera, "Karaoke" con un happening tenutosi a Parma

Paul Sears, londinese classe 1960, è un italo-britannico a tutti gli effetti da almeno quarant’anni. Una vita come protagonista dietro le quinte della musica internazionale, dalla ormai mitica “Italodisco” degli anni ’80 alle collaborazioni con star del calibro di Madonna e John Legend.

Chi è davvero Paul Sears, e da dove è cominciato tutto?
Nel lontano 1981. Vivevo in Inghilterra e mi trasferii in Italia per fare un anno all’estero previsto nel mio corso universitario. All’epoca facevo il cosidetto “madrelinguista” in un liceo a Parma. Mi sono trovato a suonare le tastiere (con tecnica piuttosto basica) con diverse formazioni indie dell’epoca. Essendo impulsivo, scriteriato e scapestrato al punto giusto mi ero scordato di rientrare in Inghilterra per concludere la laurea: quindi il mio anno all’estero non è ancora finito. La mia vita era insegnamento al liceo, lezioni private, traduzione, scrittura, raccolta di pomodori e cipolle nei campi nei mesi di luglio e agosto: e poi suonare, suonare, suonare. In mezzo a tutto questo ho cominciato a collaborare con produttori di musica dance, perlopiù a Reggio Emilia, una vera fabbrica di hit Italodance in quegli anni. Poi, nei primi anni 90 ho iniziato un’attività imprenditoriale come manager artistico. La vera svolta è arrivata nel 2002 quando il dj Benny Benassi, il cui brano “Satisfaction” cominciava ad andare bene in Francia, mi chiese di fargli da manager. Sono passati due decenni e lavoriamo ancora insieme: a noi basta una stretta di mano e la fiducia reciproca. Ora poi sono socio fondatore di Visionary Sapiens, società di management e di edizioni musicali, con sede a Milano. Sono quello più anziano e il mio ruolo è di fare il mentore ai soci e a un team di persone eccezionali. Ho sempre interpretato il mio ruolo come quello più invisibile possibile, quello che si muove dietro le quinte. Non mi hanno mai convinto i manager troppo protagonisti, che vogliono essere più star degli artisti che rappresentano.

Nella tua carriera di manager musicale e di editore hai collaborato con artisti internazionali incredibili. Ti faccio un nome: Madonna.
Le collaborazioni nascono sempre attraverso gli artisti con cui lavoro. Con Benny abbiamo collaborato con Madonna, sia quando Benny apriva i concerti per lei nei tour sia quando con Alessandro Benassi, il cugino e allora produttore di Benny, abbiamo prodotto quattro canzoni per lei. Io non andavo in studio, perché lei non voleva nessuno tranne i Benassi e il tecnico: la sentivo al telefono, discutevamo degli aspetti tecnici di stesura di un remix. Per il resto mi interfacciavo con il suo manager, Guy. E’ stato molto interessante poter vedere dall’interno l’assoluta professionalità di Madonna e del suo team. Quello che mi ha colpito di loro è stata la gentilezza, la cortesia, il rispetto e le idee così chiare che di più non si può. Sempre con Benny ho avuto collaborazioni con Chris Brown, Kelis, Gary Go, John Legend, Britney Spears e altri ancora. Con Alex Gaudino abbiamo lavorato a stretto contatto con Kelly Rowland, Jordin Sparks, Taboo dei Black Eyed Peas. Con Merk & Kremont, i D.N.C.E.

Qualche aneddoto divertente dal meraviglioso mondo over the top della musica?
Eccone un paio a cui sono molto affezionato. Durante la lavorazione di un remix commissionato a Benny e Alle Benassi di un brano dei Rolling Stones, “Doom And Gloom”, è arrivata una email mandata direttamente da Mick Jagger con commenti e feedback. E ancora: qualche anno prima Benny aveva campionato un brano di Iggy Pop, stavo cercando l’autorizzazione per l’utilizzo dalla sua casa discografica, l’E.M.I. a Los Angeles che non rispondeva – ho fatto presente il problema al manager di Iggy, due giorni dopo ricevo una mail personale di Iggy chiedendomi chi alla label non stava rispondendo così avrebbe saputo a chi puntare il suo elephant gun!

Sei uno degli artefici riconosciuti della rivoluzione della Disco internazionale degli anni 80. Se oggi ripensi a quel periodo, cosa ti torna alla mente subito?
Devo essere sincero. Se artefice sono, sono artefice per caso! Negli anni ’80, quando cominciavo a collaborare con quel mondo, nel mio cuore io ero un Joy Division kid. Ero stato un teenager a Londra nell’epoca d’oro della musica britannica. La musica per me erano i Beatles e Bowie prima, e poi quell’esplosione di creatività straordinaria che era il post-punk. Del mondo disco mi piacevano molto le persone con cui lavoravo: come Larry Pignagnoli, lui sì che si può dire un vero artefice della Italodisco (è il produttore di Spagna, Whigfield, JK, In-Grid, Benassi Bros ecc). Ci vediamo a pranzo una volta al mese ancora oggi. Poi ho cominciato ad apprezzare la musica club. E’ stato quando Benny mi ha fatto scoprire che la techno e la trance in realtà sono un universo: lì dentro ci ho scoperto intenzioni e atteggiamenti affini a quel mondo rock che mi ha formato.

Ora ti presenti al pubblico in una nuova veste. Passi dal dietro le quinte al palcoscenico. Nell’happening di Parma del 27 giugno, in collaborazione con Valuart, hai messo in scena “Karaoke”, un’opera che definisci digitofisicomusicale. Il tuo manager Etan Genini dice di te che sei “uno studioso, un provocatore a cui piace stressare tutto e tutti senza paura di rompere fantomatici equilibri”. Di cosa si tratta?
Negli anni ’80 suonavo e componevo musica indie. Poi ho scritto un libro di racconti insieme al mio amico Franco Nasi, professore universitario specializzato nella teoria della traduzione: abbiamo tradotto un grande poeta inglese, Roger McGough, che ho avuto la fortuna di conoscere. Per dire che, nonostante sia stato sempre dietro le quinte, la necessità di esprimermi l’ho sempre avuta. E ora è talmente urgente che ho fatto il mio coming out: mi identifico come artista. Le prime opere sono state degli aforismi espressi con immagini digitali generative: le ho realizzate in collaborazione con Oscar Accorsi, che non solo è uno scultore eccelso ma anche un grande appassionato di software per generare immagini in movimento. A questo punto è entrato nella mia vita il progetto Valuart: ha accolto l’idea, organizzando una mostra in Svizzera per poi collaborare nell’allestimento di una mostra in una galleria in Brera lo scorso inverno. Etan, il mio manager, non si aspettava che riuscissimo a portare questa mia specifica opera – la prima dove ho performato con la voce, la musica, la narrativa, ad un livello altissimo. I musicisti hanno fatto un lavoro impeccabile. Ho concepito “Karaoke” partendo dalla scrittura di frasi brevi, a volte aforismi, a volte romanzi compressi in cinque o sei parole. E’ un’opera che esiste su diversi piani: fisica, digitale e happening. In sintesi potrei dire che tutto quello che faccio può essere sperimentato come un mantra o una meditazione guidata, per occidentali nel ventunesimo secolo.

Nel tuo Karaoke si declama una sola frase “Social media, now we can all be lonely together”. Anche tu ce l’hai tanto con i social media? Perché?
Non ce l’ho con i social media. Come qualsiasi strumento, dipende dall’uso che ne fai. Io non giudico, provoco. Poi ognuno elabora come gli viene. Lascio che l’ossimoro “lonely together” parli per sé! Mi viene in mente un’immagine di due studenti di filosofia che devono dare un esame. Uno dice all’altro: ci troviamo insieme per ripassare il Solipsismo?

Come vedi la scena musicale di oggi? E quella artistica?
Per fortuna tanto frammentate, entrambe.