di Luca Grandicelli
Uno dei miti più radicati al quale l’Occidente affida gran parte della propria capacità di analisi quando si affaccia sullo scenario mediorientale è quello di “Israele unica democrazia del Medioriente”. Un mantra ripetuto agnosticamente dai media e politici atlantisti che serve spesso a giustificare il comportamento di Tel-Aviv in contesti bellici, anche quando l’argomento in questione non ha nulla a che vedere con il dibattito sulla democrazia. La natura di tale affermazione si basa, infatti, sull’errata convinzione che un sistema democratico garantisca automaticamente una superiorità morale, presumendo che le necessità e i desideri dei cittadini vengano ascoltati, e che i leader democratici debbano rendere conto al popolo, riflettendo attentamente prima di adottare politiche che possano generare conflitti o repressioni.
Tuttavia, questa teoria è scarsamente supportata da evidenze empiriche: non ci sono prove, infatti, che dimostrino che i paesi democratici si distinguano dai non democratici per quanto riguarda l’iniziazione o la partecipazione ai conflitti. Un classico esempio storico è rappresentato dagli Stati Uniti durante l’era “Jim Crow” (1876-1965), periodo di segregazione razziale istituzionalizzata, o dalla Francia nel dopoguerra, che, pur dichiarandosi democratica, opprimeva brutalmente le popolazioni indigene nelle proprie colonie.
L’idea, insomma, di dividere il mondo tra “Stati buoni” e “Stati cattivi” basandosi sulla presenza di un sistema democratico è pura semplificazione ideologica, e la politica internazionale spesso utilizza una falsa moralità per mascherare mere ambizioni politiche, come dimostrato dai colpi di stato sponsorizzati dall’Occidente contro governi democraticamente eletti, vedi l’Iran nel 1953, o dal sostegno a regimi tirannici in America Latina e Medio Oriente quando questi servivano esclusivamente i propri interessi politico-economici.
Israele, tuttavia, rappresenta qualcosa di differente in questo contesto: la discriminazione strutturale del suo “sistema paese” mette in discussione a priori qualsiasi tentativo di classificazione democratica. Nello Stato ebraico, infatti, esiste una netta distinzione tra cittadinanza e nazionalità, che porta a una discriminazione sistemica contro i non ebrei, sostenuta da leggi discriminatorie come la “Legge del Ritorno”, che garantisce il diritto di immigrare e ottenere la cittadinanza israeliana solo agli ebrei, o la “Legge sulle Proprietà degli Assenti”, che facilita la confisca delle proprietà palestinesi, creando disuguaglianze che persistono ancora oggi.
Inoltre, la gestione delle terre da parte del Fondo Nazionale Ebraico (JNF), che sviluppa terreni solo per gli ebrei, impedisce ai cittadini arabi palestinesi di Israele di acquistare o affittare terreni. Si tratta pertanto di un sistema di discriminazione radicato e sistematico che solleva serie domande sulla vera natura democratica e inclusiva dello Stato di Israele.
Del resto la stessa Corte Suprema di Gerusalemme ha ribadito più volte che una nazionalità israeliana unificante potrebbe minare l’ebraicità di Israele, sottolineando, se ancora ce ne fosse bisogno, la natura etnocratica dello Stato, come ampiamente descritta da Oren Yiftachel, noto accademico israeliano per il suo lavoro nel campo della geografia politica, che definisce lo stato ebraico un a vera e propria etnocrazia, un regime che promuove l’espansione del gruppo dominante nel territorio conteso mantenendo una facciata democratica. In questo contesto, l’etnia determina diritti, poteri e risorse, creando una tensione tra democrazia ed etnocrazia.
Definire pertanto Israele una democrazia ne distorce il concetto stesso, soprattutto alla luce di quanto accaduto dal 7 ottobre a oggi, dimostrando che neanche questa forma di governo è immune da comportamenti spregevoli e criminali, di cui Israele è di fatto divenuto il legale rappresentante nel mondo.