di Claudia De Martino

Il mancato cessate il fuoco nella Striscia di Gaza non lascia intravedere la definitiva fine della guerra, ma dopo le dichiarazioni rilasciate da Netanyahu sull’imminente sconfitta dell’ala militare di Hamas e l’avvio di una “terza fase” del conflitto a bassa intensità, è indubbio che occorra iniziare a pensare a cosa accadrà agli oltre due milioni di gazioti non appena l’esercito israeliano si ritirerà anche parzialmente, magari per avviare una guerra a nord contro Hezbollah. È infatti probabile che non si giunga mai ad un cessate-il-fuoco concordato con Hamas e che sia necessario prevedere uno scenario alternativo, che non lasci i civili palestinesi inermi in uno stadio di anarchia e criminalità diffusa, ai limiti della sopravvivenza e oggetto di continue aggressioni militari, che sembra essere la scelta dell’attuale governo israeliano.

E’ dunque più che mai urgente che la comunità internazionale e l’Onu rilancino un serrato dialogo con le istituzioni palestinesi, a breve chiamate a ripristinare una parvenza di normalità a Gaza. E qui viene il nodo dolente relativo alla crisi in cui versa anche la cosiddetta “ala moderata” della società palestinese, che vede un presidente ottuagenario e inamovibile da 19 anni, prossimo alla successione ma senza nessuna prospettiva di elezioni imminenti. L’alternativa ad Hamas è, quindi, più debole di quanto non lo sia mai stata negli ultimi 17 anni, mentre la disaffezione elettorale cresce trasversalmente.

La popolarità del presidente Abbas, che il 31 marzo 2024 ha dato mandato ad un nuovo governo tecnico guidato dal premier Muhammad Mustafa, è in caduta libera (12% secondo l’ultimo sondaggio Pcsr). Oltre le numerose critiche ricevute sulla stretta cooperazione dei servizi di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) con l’occupante, ovvero con Israele, che ha permesso l’arresto di oltre 4000 palestinesi e l’uccisione di altri 550 in Cisgiordania negli ultimi nove mesi di guerra, anche l’economia, tradizionale vettore di compensazione per la popolazione, è adesso in piena recessione, con una contrazione dell’8.7% nel 2023 e una sconfortante previsione di calo del 25.8% nel 2024 (dati Undp, United Nations Development Programme, maggio 2024).

La povertà totale tra i due Territori palestinesi è proiettata a schizzare al 60% e la disoccupazione, aggravata dalla sospensione permanente dei permessi di lavoro in Israele per circa 150.000 palestinesi, al 46%, riportando indietro l’indice di sviluppo umano di circa 18 anni. In più l’Anp sconta un grave deficit di bilancio (pari a 1.2 miliardi di dollari) dovuto alla contrazione degli aiuti esteri, iniziata nel 2018 con la sospensione dei prestiti Usa a seguito dell’entrata in vigore del Taylor Force Act, proseguita colle restrizioni dovute al Covid-19 e intensificata dalla sospensione del trasferimento delle tasse (secondo il Protocollo Economico di Parigi, firmato nel 1994) da parte del governo israeliano, in ritorsione alle procedure legali avviate dall’Anp contro Israele presso la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia.

Alla criticità interne al contesto palestinese si sommano poi le decisioni del governo israeliano, il cui ministro delle finanze Smotrich ha ventilato la messa al bando definitiva dell’Unrwa mentre regolarizzava altri cinque “insediamenti spontanei”.

Il nuovo governo tecnico Mustafa non sembra avere alcun radicamento nell’opinione pubblica né alcuna trazione nei confronti dei giovani, che costituiscono il 40% della società palestinese e provano un distacco naturale nei confronti della democrazia, non avendo mai votato né per l’Anp né per l’Olp, di cui a stento percepiscono ancora la funzione. Il presidente Abbas, però, non concede alcuna apertura alla partecipazione politica: a febbraio un gruppo legato alla “nuova guardia” di al-Fatah e promosso dall’Arab Center for Research and Policy Studies (Acrps) e dall’Institute of Palestinian Studies, riunitosi a Doha, aveva provato a proporre il varo di una conferenza nazionale palestinese per rinnovare l’Olp e rilanciare il ruolo del Consiglio Nazionale Palestinese (il Parlamento dell’Olp), ma Abbas ha ignorato ogni proposta “dal basso”, preferendo piuttosto nominare un nuovo governo di tecnici con il consenso internazionale.

Le istituzioni palestinesi sono così rimaste tronche: un governo non eletto che gestisce solo la Cisgiordania, un Parlamento vacante, un’Olp divisa in correnti politiche risalenti agli anni ’70 e che non svolge più il suo ruolo di cerniera tra i palestinesi dei Territori occupati e della diaspora, e un apparato di sicurezza dell’Anp sofisticato, composto da ben cinque diversi servizi di intelligence, che però non proteggono i civili né dalle violenze dei coloni, né dell’Idf, anche nei suoi sconfinamenti in area A di competenza palestinese.

Date le premesse, il tentativo dell’Amministrazione Biden di riproporre una “Autorità Nazionale Palestinese” rivitalizzata al governo della Striscia appare decisamente arduo e tuttavia rimane l’unica strada percorribile per evitare che Gaza versi in uno stato di perenne anarchia e totale dipendenza dagli aiuti umanitari. In previsione del fatto che né gli Usa né Israele sono disposti ad accettare un ritorno di Hamas al potere e che quest’ultima nemmeno lo auspica, e che non sia accettabile l’eventualità di un governo israeliano sulla Striscia, non rimangono che l’Anp e l’Olp come attori responsabili sulla scena palestinese. A loro spetterà negoziare la “pace”, sfruttando al meglio questo momento di breve attenzione internazionale che, paradossalmente, solo l’azione terroristica di Hamas è stata in grado di assicurare alla causa palestinese. E devono farlo considerando il grido di aiuto, ma anche le esigenze di dignità e libertà avanzate dai gazioti, che vogliono almeno sperare che questa lunga guerra possa condurre alla riunificazione nazionale sotto una nuova leadership democraticamente eletta.

È questo il “minimo sindacale” che la comunità internazionale dovrebbe esigere da Israele dopo nove mesi di guerra, esercitando il massimo della pressione ora in vista delle elezioni Usa a novembre, dopo le quali il mondo potrebbe trovarsi ancora più frammentato di oggi.

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