Scuola elementare: una madre entra e apostrofa l’insegnante con ingiurie perché, secondo lei, non valorizza a sufficienza il suo figliolo. Pronto soccorso: i parenti di un bimbo in attesa aggrediscono verbalmente un medico perché dopo due ore di attesa non ha ancora visitato il ragazzino febbricitante.

Sta dilagando l’ideologia che per ottenere qualcosa occorre “farsi valere” alzando la voce, litigando e offendendo. D’altronde siamo oramai abituati a vedere talk show in cui chi alza la voce e offende, e invece di essere zittito riesce a prevaricare sugli altri. Nelle serate successive, visto che la rissa procura visibilità, commenti e prese di posizione, i maleducati che hanno esagerato con offese e atteggiamenti aggressivi vengono di nuovo invitati. Il mondo non è dei miti.

Ora ci si mettono presidenti di regione e addirittura la presidente del Consiglio. Il modello diseducativo imperante afferma che bisogna essere spregiudicati, cafoni, aggressivi per ottenere un qualche successo.

Non voglio fare l’educanda. E’ chiaro che un minimo di energia ci vuole nella vita nel portare avanti le proprie idee, cercare di far prevalere valori e punti vista. Questa cafonaggine imperante però mi pare veramente eccessiva. Avverto fuori luogo che una presidente del Consiglio si presenti cercando deridere l’interlocutore con la frase: “sono quella stronza…”. A nulla vale il fatto che l’interlocutore del momento sia stato in passato più cafone di lei. Così come è assolutamente disdicevole che gli onorevoli (?) si mettano a fare a botte.

Il messaggio che passa nelle menti delle nuove generazioni è che per essere ascoltati occorre imporsi, che l’aggressività verbale paga e, probabilmente, di conseguenza, anche una certa dose di aggressività reale. Non stupiamoci quindi se nelle pieghe della nostra società gli episodi di aggressività divengono abituali.

La propaganda bellica afferma che il nemico ha sempre torto marcio, si tratta di un novello Hitler, se attua una proposta di pace deve essere denigrato. Non si può pensare di attuare una controproposta per poi cercare un compromesso. I due conflitti cui stiamo assistendo e partecipando con invio di armi divengono a questo punto irrisolvibili perché solo “l’annientamento dell’avversario” potrà risultare una soluzione accettabile.

Dopo 80 anni di pace fra le nazioni più forti militarmente, anche se conflitti locali si sono continuamente svolti, c’è in giro una gran voglia di guerra. I futuristi la indicavano in alcuni farneticanti manifesti come unica “igiene del mondo”. Anche ora a livello inconscio fra la popolazione emerge la voglia di “farla finita” con questo pacifismo esasperato, che viene additato come un calare le braghe. Costi quel che costi il messaggio profondo che emerge è quello che dobbiamo imporci. Non possiamo cedere neppure un millimetro.

“Vae victis” (Guai ai vinti) è divenuto il motto della nostra disgraziata società per cui partendo dai conflitti internazionali per arrivare al paziente in attesa al pronto soccorso la violenza pare l’unica strada percorribile. Il disagio della civiltà rende insofferente la nostra componente aggressiva per cui inconsciamente cerchiamo ogni pretesto per esprimerla.

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