Che i centri di permanenza per il rimpatrio, i famigerati Cpr, siano un buco nero che strappa la dignità alle persone è cosa nota. Eppure non può esistere assuefazione di fronte a storie degradanti, per le vittime e non solo, come quella di Camelia, una donna che si fa chiamare Giovanni, con evidente “incapacità di intendere e di volere”, di relazionarsi: non si fa avvicinare, urla se vede qualcuno, specialmente donne o personale sanitario. Tuttavia è stata rinchiusa e isolata in una cella del Cpr di Roma Ponte Galeria per nove mesi, senza cure adeguate e con il trattenimento prorogato dal giudice di Pace su richiesta della Questura di volta in volta, nonostante di lei non si conosca di preciso nemmeno la nazionalità, il che renderebbe impossibile ogni ipotesi di rimpatrio e dunque illegittimo il trattenimento anche al netto del grave disagio mentale che la donna presenta. Bisogna ringraziare le deputate del Partito democratico Rachele Scarpa e Eleonora Evi, e le altre persone attivatesi, se qualcosa finalmente si è mosso. Ma non certo per l’interessamento delle autorità italiane. Evi e Scarpa hanno presentato ricorso alla Corte europea che in pochi giorni, il 3 luglio scorso, ha preso la decisione “di indicare al Governo italiano che la ricorrente dovrebbe ricevere l’assistenza medica richiesta dal suo stato di salute, compreso il suo immediato trasferimento dal Centro per il rimpatrio di Roma – Ponte Galeria ad una struttura adatta alle sue condizioni”, si legge nella richiesta della Corte, ai sensi dell’art. 39 del regolamento Cedu che consente un intervento immediato in caso di rischio di danni irreparabili.

Era stata video registrata di nascosto dalla deputata Evi – video poi inserito in una trasmissione televisiva – mentre gridava verso chiunque le si avvicinasse. Legali e attivisti si sono interessati al suo caso nella speranza di interrompere la detenzione. Lo scorso 18 giugno, insieme alla dottoressa Monica Serrano e alla legale Federica Borlizzi, Rachele Scarpa ha ispezionato il Cpr di Ponte Galeria, relazionando anche sulla condizione di Camelia. Il passaggio merita di essere letto per intero. “Lontana dal modulo abitativo femminile, si trova la signora C. F. all’interno di una vera e propria “gabbia” di isolamento. Al momento della nostra visita si trova all’aria aperta, visibile attraverso le sbarre. Quando incrociamo il suo sguardo si ritira subito all’interno del modulo. Date le numerose relazioni scritte (psicologa, Be free, psichiatra) valutiamo inutile un tentativo di colloquio diretto e lavoriamo a individuare le condizioni di un incontro con lei/lui: chiamarla Giovanni, nome al quale risponde; avvicinarla con personale qualificato di sesso maschile, essendo “ostile” al personale femminile e sanitario; non chiedere ciò che serve a noi sapere, ma adeguarsi a ciò che lei/lui stessa significa come utile e non minaccioso (le sigarette, il cibo, gesti di offerta concreti). Non riusciamo, in ogni caso, ad avere alcun tipo di relazione con la signora C.F.”. Come già rilevato precedentemente su richiesta di Scarpa, non riceve cure. “Si conferma che, per quanto scritto in cartella, la signora non prende farmaci né psicofarmaci. Quando chiediamo di vedere la documentazione legale e il nome dell’avvocato di ufficio nelle sedute di convalida del trattenimento le stesse Forze dell’ordine ci chiedono di rivolgerci all’Ufficio immigrazione”. Ancora: “Appare evidente la sua completa incapacità di intendere e volere, così come è altrettanto palese che tenerla segregata in tale luogo appare rispondente ad una inaccettabile logica manicomiale, senza alcuna tutela dello stato di salute della signora C.F. che, anzi, rischia di essere gravemente compromesso da un prolungamento del trattenimento”.

Peggio: “Preme evidenziare come il personale di polizia e sanitario del Cpr concordi nel ritenere non adeguata la detenzione della signora C.F. nel Centro, addirittura giungono a chiedere alla nostra delegazione un supporto per comprendere come poter fare a trasferire la donna in un luogo di cura adeguato al suo stato di salute. Evidenziamo come la Questura avrebbe potuto, già da mesi, evitare di chiedere le continue proroghe del trattenimento; rilasciare un permesso di soggiorno per cure mediche; attivarsi affinché si procedesse con la nomina di un amministratore di sostegno; intraprendere le necessarie azioni per coinvolgere la ASL nella presa in carico della donna. Tutte gravi mancanze che palesano una responsabilità delle istituzioni competenti nella detenzione, da ben 9 mesi, di una donna del tutto incompatibile con la vita in comunità ristretta”. Camelia era stata fermata a Catania lo scorso ottobre, e la visita che aveva accertato la sua idoneità alla vita ristretta aveva preso in considerazione solo l’assenza di malattie infettive, mentre la direttiva ministeriale in merito impone che debba esserci anche una valutazione psicologica. Invece la visita con lo specialista è arrivata solo a maggio di quest’anno. Di fronte alle sollecitazioni della Corte europea, ricorda Scarpa, “la risposta del Governo è stata del tutto insoddisfacente: si è provato a giustificare la proroga di un trattenimento in sé assurdo, difendendo l’indifendibile, quando è evidente che vi siano state superficialità e disinteresse. La detenzione di una persona con problemi di salute mentale in un Cpr è contraria al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti“. Il caso è stato seguito dagli avvocati Daria Sartori, Gennaro Santoro, Federica Borlizzi e dalla dottoressa Muriel Vicquery, con il supporto della Rule 39 Pro Bono Initiative, di Monica Serrano e dei medici Antonello D’Elia e Nicola Cocco. I promotori del ricorso alla CEDU sottolineano che “la vicenda di Camelia non è isolata e che nei Cpr la violazione dei diritti umani è sistematica”. E che le criticità per la salute mentale delle persone detenute sono state evidenziate anche per altri centri, come quelli di Milano e Macomer.

Nello stesso Cpr di Roma, dove mentre scriviamo è ancora trattenuta Camelia – “vigileremo perché la decisione della Cedu venga attuata al più presto”, assicura Scarpa al Fatto -, altri detenuti presentavano incompatibilità con le condizioni del trattenimento. “Dalle cartelle sanitarie visionate – si legge ancora sull’ispezione del 18 giugno – appare evidente la completa lacunosità dei certificati che attestano l’idoneità alla vita in comunità ristretta, che – nella maggior parte dei casi – non indagano in nessun modo la presenza di eventuali “disturbi psichiatrici” o di “patologie acute o cronico degenerative”, come richiesto dalla normativa”. Il paragrafo 5 è dedicato agli incontri coi detenuti. “Un altro ragazzo, A.A., lo incontriamo nella cella di pernotto su volontà degli altri detenuti. Lo troviamo riverso sul letto in stato catatonico, corpo irrigidito, viene fisicamente alzato e tenuto seduto. Non reagisce agli stimoli e non riusciamo ad avere un colloquio con lui. Gli altri detenuti ci dicono che gli hanno fatto una “punturina” e che si trova in quello stato da diversi giorni”. E poi donne in Italia da 15 anni che una volta perso il lavoro non sono riuscite a rinnovare il permesso di soggiorno e una giovane ragazza “detenuta nel CPR nonostante i chiari indicatori di tratta a scopo di sfruttamento sessuale”. A fare da sfondo, la struttura gestita dalla multinazionale ORS. Dove l’ispezione rileva sovraffollamento, materassi usurati, mancanza di armadietti, bagni degradanti, un locale mensa inutilizzato mentre i pasti sono distribuiti attraverso le grate e consumati nelle celle. Totale assenza di attività programmate, di locali adibiti al culto, telefoni fissi non funzionanti, mancanza di un locale di osservazione sanitaria adeguato. E poi, appunto, mancanza di idoneità al trattenimento, abuso di psicofarmaci, assenza di presa in carico psichiatrica e presenza sporadica di una psichiatra della ASL. “Per questo – scrive la deputata del Pd Scarpa – una richiesta della Corte come quella di oggi deve sollecitare un cambio radicale del sistema di accoglienza ed un superamento del sistema detentivo nei Cpr, che eviti al nostro Paese di restare nell’abisso in cui, per qualcuno, i diritti umani non vengono riconosciuti e tutelati”.

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