I laburisti hanno fatto cappotto nelle elezioni di giovedì scorso, esito ampiamente previsto ma non per questo meno eclatante. Questo risultato si inserisce in un trend internazionale che sembra favorire nettamente chi sta all’opposizione. È successo un po’ dappertutto. In Italia con Meloni, in Argentina con Milei, in Francia con Le Pen, in Germania con l’ascesa di Afd, in India con Modi e così via, al di là delle opposte ideologie politiche. La crisi economica da inflazione ha messo alle corde chi sta al governo. L’illusione dell’elettore è pensare che chi si trova all’opposizione abbia delle ricette migliori. I cicli politici sono fatti così e hanno una loro irrazionale logica interna.
La crisi dei conservatori inglesi ha avuto però proporzioni bibliche, e quindi c’è qualcosa di più. Forse gli elettori non amano più i miliardari prestati alla politica come il primo ministro Rishi Sunak, esponente di punta del capitalismo finanziario internazionale. Gli elettori vogliono tornare sulla terra preferendo persone normali e non rappresentanti di quella ristrettissima élite dello 0,01% di super ricchi, oggi al timone dell’economia mondiale. Il programma di Sunak era quello tradizionale dei conservatori inglesi: ridurre le tasse, tagliare i servizi pubblici, deregolamentare e privatizzare. Tutto questo con la solita promessa di ridare slancio all’economia e arricchire tutti con una robusta crescita eocnomica. Crescita che non c’è stata e per i milioni di inglesi che lottano contro il caro vita, per trovare una casa a prezzi docenti, oppure per avere un servizio scolastico e sanitario accettabili queste vecchie promesse sono risuonate come una musica stonata, buona solo per miliardari o giù di lì.
Che questa ricetta non potesse funzionare lo aveva dimostrato già due anni fa la rapida eclissi della turboliberista, e premier inglese per un mese, Liz Truss. Truss sognava di essere la nuova Margaret Thatcher, ma non si era accorta che il tempo dell’individualismo sfrenato e del motto thatcheriano “la società non esiste” era completamente tramontato. È rimasta in carica per un tempo ridicolo: dal 6 settembre al 20 ottobre 2022, il premierato più breve della storia inglese. Il suo programma era “audace” o meglio “stupido” da un punto di vista economico: riduzione delle tasse per i ricchi, limitazione del diritto di sciopero, tagli alle sovvenzioni dello Stato sociale e così via. Un programma da turbocapitalismo che è stato bocciato proprio dai mercati e in maniera fulminea. I mercati, invece che una maggior crescita economica, anticipavano razionalmente un aumento del già faraonico debito pubblico inglese. Il miliardario succeduto al suo posto ha annacquato la minestra liberista, senza però cambiarne gli ingredienti di fondo.
La ricetta liberista, più mercato e meno Stato, più egoismo individuale e meno solidarietà collettiva, nei 14 anni di governo dei conservatori ha impoverito le condizioni economiche della gente comune, che infine si è ribellata con un voto plebiscitario. Su tutto questo si è abbattuto anche il ciclone Brexit che ha smascherato le fatali conseguenze economiche dell’illusione nazionalista inglese. L’uscita dalla zona economica europea, per solcare le antique acque dell’impero britannico, non ha portato molta fortuna perché oramai l’Inghilterra è un peso piuma nell’economia mondiale, dominata da altri giganti, tra cui proprio l’Ue. Una dura lezione anche per i nostrani sostenitori dell’Italexit, ora abbastanza silenziosi peraltro.
Per chi volesse capire a fondo le radici della crisi del modello inglese, una lettura utile è il recentissimo libro di Torsten Bell, dal titolo molto evocativo Great Britain? How We Get Our Future Back. Lo studioso e giornalista di area laburista affronta nei vari capitoli le ragioni, recenti ma anche più lontane, del declino economico inglese che non è iniziato con i conservatori, ma da essi è stato accelerato. Oltre a questo, il partito conservatore non ha mantenuto le sue promesse elettorali. In campo fiscale, intanto. In questo ultimo decennio le tasse non sono diminuite, ma invece aumentate (dal 32% al 36% del Pil). L’immigrazione non è stata contenuta e ha subito per varie ragioni una forte accelerazione (soldo netto da 300.000 ingressi nel 2010 ai 600.000 attuali). I prezzi delle case sono diventati inaccessibili per il cittadino medio (+20% solo nel periodo dopo la pandemia). Il costo dell’università è salito alle stelle con un debito medio dello studente che si laurea di 45.000 sterline. Per non parlare del debito pubblico, partito dal 70% del Pil e ora al 100%. Tanto per citare qualche esempio del fallimento del programma economico dei conservatori.
L’eredità dei conservatori è stata piuttosto fosca per la vecchia Gran Bretagna. Non sorprende quindi che gli elettori abbiano detto basta all’egoismo liberista e abbiamo scelto la strada opposta della costruzione di un’economia più solidale e attenta ai beni comuni. Anche perché le tre sfide che si presentano per tutti i paesi ricchi sono straordinarie: quella demografica, quella ambientale e quella distributiva. Il cosiddetto libero mercato, che non esiste perché oramai i mercati sono delle lobbies legalizzate per estrarre notevoli rendite a danno dei consumatori, ha fallito miseramente.
I conservatori hanno fatto cilecca, ora tocca ai progressisti e il compito non si presenta affatto facile. La direzione però è chiara: abbandonare i miti ormai esausti del liberismo, buoni solo per gonfiare le tasche dei soliti e ben noti Paperoni dell’economia e della finanza. Non resta che augurare buon lavoro al nuovo primo ministro, l’avvocato laburista Keir Starmer.