Nella mitologia greca si racconta che Icaro nel tentativo di scappare dal labirinto di Creta dove era stato rinchiuso, osò volare troppo vicino al Sole con le ali che il padre Dedalo gli aveva attaccato al corpo con la cera. Il calore così sciolse la cera, facendo cadere Icaro in mare, dove morì. Un racconto che ha attraversato i secoli, associandosi a ogni ambito della vita, compreso quello sportivo. D’altronde, lo sport ha sempre avuto un legame stretto con il mito. Basti pensare alla Nike, la più importante multinazionale che produce calzature, abbigliamento e accessori sportivi, che prende il proprio nome dalla dea greca della vittoria.

Anche il tennis ha il suo personale repertorio. A Rafa Nadal è associabile la forza e la determinazione di Achille, a Novak Djokovic la voglia di dominio di Kratos, a Roger Federer semplicemente la parola “Dio”. Ma la racchetta ha anche il suo Icaro, il primo dei giocatori “umani”, quello che ha voluto spingersi oltre, ambendo a toccare il “divino” riservato ai sopracitati Big Three. L’Icaro in questione si chiama Andrew Barron Murray, detto Andy, cavaliere dell’Ordine Britannico, che ha detto addio al suo Wimbledon dopo la sconfitta nel doppio giocato con il fratello Jamie. Il preludio al saluto definitivo al tennis. “Mi piacerebbe continuare a giocare, ma fisicamente non posso. È troppo duro, tutti gli infortuni si sono sommati. Vorrei giocare per sempre. Mi ha dato così tanto, ho imparato un sacco di lezioni che porterò con me nel resto della mia vita”, ha detto in lacrime.

La storia di Andy Murray è fatta di numeri e molto altro. Ci sono urla, delusioni, frustrazioni mostrate senza filtri, quasi sempre contro sé stesso, abnegazione e sacrificio al servizio di un talento che non si vedeva da decenni in Gran Bretagna. Una versione che fuori dal campo si ribalta. Pacato, equilibrato, dalle idee complesse e che abbracciano il progressismo tennistico. Per esempio sul tema del prize money uguale per uomini e donne è stato il più chiaro di tutti, e nel 2014 scelse una strada inusuale per il tennis maschile come l’assunzione di Amélie Mauresmo come allenatrice. A tutto questo pamphlet caratteriale si sommano i riconoscimenti e la gratitudine di un paese intero per aver spezzato nel 2013 un tabù che durava da 77 anni. Il primo britannico vittorioso a Wimbledon dal successo di Fred Perry nel 1936. Nella sua bacheca trovano spazio 46 titoli in carriera, 3 Slam, 1 Atp Finals, 14 Masters 1000, 2 ori Olimpici e 41 settimane da numero 1 del mondo.

Una parabola dettata da uno spirito combattivo unico e da un impegno morale che si era preso con le sue origini. Wimbledon 2005. Murray ha appena compiuto 18 anni e ha ricevuto una wild card per partecipare al torneo. Supera agevolmente i primi due turni, ma la partita di terzo turno lo vede di fronte a David Nalbandian, uno che tre anni prima ai Championships è stato finalista. Il giovane scozzese mette in mostra tutte le sue qualità, strappa il primo set al tie-break, domina nel secondo, poi arriva la rimonta dell’argentino, che vince i restanti tre parziali comodamente 6-0, 6-4, 6-1. Nel tennis l’esperienza gioca spesso un ruolo centrale, ma in questa occasione c’è anche altro. C’è un peso interiore profondo, vivo, che prende forma con le lacrime nell’ultimo set e una dichiarazione: “Voglio dare ai cittadini di Dunblane un motivo per essere felici”. Dunblane è una cittadina scozzese di circa 9.000 persone, diventata suo malgrado famosa a livello mondiale il 13 marzo 1996. Tra le 9.30 e le 9.33 Thomas Watt Hamilton, un ex-capo scout, entra nella Primary School della città uccidendo a colpi di pistola sedici bambini di età compresa tra i 5 e i 6 anni e la loro insegnante, prima di suicidarsi. Uno dei peggiori massacri nella storia avvenuti in Regno Unito. Andy Murray e suo fratello Jamie quel giorno erano lì, all’interno dell’edificio. Si salvano perché riescono a nascondersi sotto una cattedra, ma quella giornata li segna inevitabilmente, gli entra sotto la pelle.

Durante tutta la carriera Murray ha cercato di abbattere quel muro di gomma che lo divideva dal livello che serve per dominare. Ha vinto diverse battaglie, ma poche guerre. Gli scontri diretti tutti nettamente sfavorevoli contro “quei tre” parlano chiaro, così come la distanza in fatto di titoli e soprattutto Slam: Djokovic 24, Nadal 22, Federer 20, Murray 3. Il desiderio di raggiungere il loro livello è stato per lo scozzese un’ossessione e allo stesso tempo una maledizione. Dopo intere stagioni di tentativi e rincorse, nel 2016, a 29 anni, vince 78 partite, ne perde 9, alza il suo secondo Wimbledon e le sue prime Atp Finals, diventa numero 1 del mondo. Finalmente sopra di lui non c’è più nessuno. Per la prima volta prova l’ebbrezza del primato assoluto, l’eccitazione della superiorità innegabile. Spezzare quella linea di demarcazione, frantumare quel confine che sembrava invalicabile ha richiesto però un prezzo altissimo: l’integrità fisica e, di fatto, la carriera ad alto livello. Murray ha preteso troppo dal suo corpo, l’anca è completamente usurata. La prima operazione, il ritorno e il nuovo declino, la seconda operazione e l’inserimento di una protesi sulla testa del femore, il dolore straziante. È tutto quello che arriva dal 2017 in poi, insieme alla voglia di scherzare con il tempo che passa, giocare punto dopo punto, lottare per il semplice gusto di regalarsi emozioni da portarsi dentro. Come quelle vissute contro Thanasi Kokkinakis agli Australian Open 2023, battuto recuperando da due set a zero sotto, alle quattro del mattino. Per i grandi traguardi ormai non c’è più spazio.

Il sipario di Murray si chiuderà (probabilmente) alle prossime Olimpiadi di Parigi, ma idealmente è già stato calato con il tributo del pubblico e le lacrime trattenute a stento sul Center Court dei Championships: “Sono stato molto fortunato a giocare in quest’era del tennis. Tutti gli appassionati di questo sport sono fortunati per aver assistito ai successi di Roger, Rafa e Novak. È incredibile vedere cosa sono riusciti a fare. Ed è incredibile aver fatto parte di alcuni dei match importanti di questi anni. Sono stato fortunato ad essere riuscito a farcela anche io qualche volta”. È l’ultima pagina di Andy Murray, Fab Four del tennis, Icaro dello sport, che proprio come nel mito è caduto a terra per aver osato avvicinare l’eccellenza.

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