La Francia ha detto no all’estremismo della Le Pen, il fronte repubblicano e antifascista ha vinto, l’estrema destra reazionaria del Rassemblement National ridimensionata, rispetto alle roboanti previsioni e agli ancor più favorevoli sondaggi, per non parlare della martellante propaganda mediatica (anche in Italia troppi hanno tifato Le Pen…). Il Rassemblement spadroneggiava con tracotanza, giacché si vedeva già dentro le stanze del potere, ma è rimasto in una sala d’eterna attesa, ancora una volta niente chiavi di Palazzo Borbone, quelle toccheranno ad altri. A chi non si sa. Troppo presto. E troppi inghippi da risolvere. Si voleva “chiarificare” la situazione, la situazione è più complicata di prima. Perché mettere d’accordo sinistre e macronisti è come mettere d’accordo interisti e milanisti.

Da ore, le agenzie francesi battono “brevi” in cui i vari leader e capi di partiti e partitini mettono in guardia (chi? Loro stessi?) dai rischi del caos e dalla crisi inevitabile se verranno a mancare i necessari accordi. Per non parlare di una parola tirata in ballo immediatamente dopo la chiusura delle urne, a cominciare dal sornione e volpino ex presidente, il socialista François Hollande, neoeletto nella sua Tulle (Corrèze): “Responsabilità”. Anzi: “Responsabilità repubblicana”, ammettendo che il risultato “imprevisto” delle elezioni hanno rimescolato le carte e che la cosa certa è che gli elettori hanno scartato l’opzione della destra lepenista”. Problemi complicati che non si possono risolvere con soluzioni semplici…

Alle undici di questo lunedì 8 luglio, “il giorno dopo”, è andata in scena una sceneggiata abbastanza scontata: Gabriel Attal, il primo ministro che aveva annunciato in tv domenica sera le sue dimissioni, non senza puntualizzare polemicamente che lui “questa dissoluzione del Parlamento non l’ho decisa ma ho rifiutato di subirla”, si è puntualmente recato all’Eliseo per rimettere il suo mandato nelle mani del presidente. Come ci si aspettava, Macron ha respinto le dimissioni e gli ha chiesto di restare al suo posto per assicurare la stabilità del Paese”, sia per la gestione diplomatica delle Olimpiadi di Parigi che inizieranno tra tre settimane, sia, soprattutto, fino a quando non si scioglieranno i nodi delle lunghe e laboriose trattative fra i vincitori (Nuovo Fronte Popolare delle sinistre) e il fronte macronista che è arrivato secondo, a spese del Rassemblement National, dato alla vigilia quale favorito assoluto.

Al di là della cronaca, la vera domanda da porsi è questa: come è potuto succedere questo clamoroso colpo di coda delle forze che erano state date per sconfitte alla vigilia ed invece hanno rovesciato i pronostici, come Davide contro Golia?

Intanto, una spiegazione gli analisti l’hanno data attribuendo, in parte, lo sconvolgimento alla grande mobilitazione popolare. A differenza degli italiani, i francesi sono infatti andati a votare, non sono rimasti al mare o in montagna (luglio l’avrebbe giustificato): lo ha fatto il 66,63 per cento degli elettori, i due terzi dei 43 milioni aventi diritto, hanno ritenuto cioè loro dovere evitare che l’astensionismo favorisse gli estremismi, e per difendere la democrazia parlamentare, come molti elettori hanno confessato quando gliel’hanno chiesto. Hanno, parole loro, impedito la prepotenza di una parte sola. Molti hanno quindi votato al centro: in questo modo si spiega la resurrezione della coalizione macroniana. Non come nel Belpaese, dove l’astensionismo ha favorito lo strapotere di Fratelli d’Italia, nonostante due terzi dell’elettorato non avesse scelto la Meloni. Meccanismi diversi: in Italia, la legge elettorale ha consentito questo sopruso con premi che hanno consolidato la quota degli eletti.

In Francia, il dispositivo dei ballottaggi ha permesso la cosiddetta “desistenza democratica” per contrastare il Rassemblement National. In nome di un ideale “fronte repubblicano”. Per questo, il Nuovo Fronte Popolare ha ritirato 130 deputati e favorito il barrage contro i lepenisti, idem 80 macronisti. La mossa è stata decisiva. Ha stoppato l’assalto al potere degli estremisti di destra, che avevano presentato 441 candidati su 1094 (656 uomini, 438 donne). E scatenato la rabbia di RN, i cui aspiranti deputati sono stati decimati: tra le vittime illustri, Marie-Caroline, la sorella di Marine Le Pen.

Tuttavia, non è bastato a sciogliere i nodi dell’ingovernabilità. Il risultato del voto si è trasformato in un tremendo rompicapo, dalle impraticabili, almeno per il momento, alchimie politiche: poiché nessuno dispone della maggioranza assoluta, occorre venire a patti; ma il fatto che la maggioranza relativa delle sinistre non è forte, ne abbassa le pretese quando si cominceranno ad avviare le trattative sul nome del nuovo primo ministro. Si prefigura la “coabitazione” tra opposizione (di centrosinistra) e Macron. La sinistra dovrà scegliere il candidato, e questo sarà un compito arduo, viste le pretese di Jean-Luc Mélenchon, il leader della estremista France Insoumise che, all’interno del Fronte Popolare, ha 78 deputati su 178 (ma i socialisti ne hanno 69, mentre gli ecologisti solo 28) che si è subito proposto come aspirante premier, cosa inaccettabile per i macronisti. Sinistra unita e disunita, questo il primo vero ostacolo da superare e che provocherà dissensi e dispetti (una neodeputata ha fatto sapere, per esempio, appena eletta, che lei lascerà France Insoumise, per via di divergenze…). Insomma, la confusione ristagna, mentre avrebbe dovuto diminuire nelle intenzioni del dissolutore Macron.

Il voto ha diviso in tre, più o meno, l’Assemblea Nazionale, la sinistra ha vinto ma di poco, i macronisti hanno resistito contro ogni previsione, e la Le Pen è terza, senza alcuna speranza di reggere qualsiasi gioco, se non quello della stridula opposizione: 178, 156, 142, ecco i numeri chiave dei tre schieramenti. Al cui interno, sopravvivono differenze, ambizioni. Il paradosso è che sino a sabato pareva infatti che le sirene della destra lepenista avessero ammaliato l’opinione pubblica e sedotto l’elettorato. La tranvata ha choccato i dirigenti di Rassemblement, a cominciare da Jordan Bardella, palesemente a disagio (conscio, forse, di esserel’agnello sacrificale della sconfitta). Timore e diffidenza hanno indotto i francesi a bocciare Marine Le Pen ed il bellimbusto Bardella, il delfino fino a poche ore fa destinato ad un grande avvenire, ed oggi probabilmente messo in discussione da chi non aveva gradito la sua nomina, a soli 26 anni, di presidente del partito, nel 2022, spacciata quale prova di un cambiamento generazionale all’interno del partito dominato dal clan Le Pen.

Dunque, trascorsa la turbolenta nottata, questo lunedì 8 luglio è stato il turno della Borsa di Parigi a dare un primo, concreto segnale sul voto. Primo test veramente post elettorale, la Borsa (che è la seconda europea, dopo quella di Londra e che è associata a quella di Milano) ha aperto in leggera flessione: meno 0,49 per cento; lo spread è salito da 47 a 52, il tasso delle obbligazioni del Tesoro è passato da 3,09 a 3,22 per cento. Un mese fa, l’indomani del voto europeo col trionfo di Marine Le Pen e del suo delfinotto Jordan Bardella, la Borsa era stata assai più severa, calando dell’1,35 per cento.

Che significa? Che al mondo della finanza il risultato finale delle legislative ha fatto meno paura di quello europeo. La sorpresa non ha destabilizzato i mercati. Ha preso atto dello scatto alla Pogacar, la maglia gialla che sta dominando il Tour, di un inatteso Nuovo Fronte Popolare capace di tagliare per primo il traguardo finale delle legislative dominando in volata la seconda tappa, pardon, il secondo turno e digerendo le velleitarie dichiarazioni di Mélenchon che si è detto pronto ad accettare l’incarico di premier. A prescindere dalle problematiche dei vari piani economici, del fatto che le sinistre vogliono portare il reddito minimo netto a 1600 euro (oggi è a 1398,70: un miraggio per l’Italia, e una vergogna che non l’abbiamo un reddito minimo, e che togliamo i sussidi a chi ne ha bisogno), che vogliono abrogare la nuova legge sulle pensioni (in questo anche RN sarebbe d’accordo), che vogliano cancellare la legge restrittiva sull’immigrazione, e che spingano perché aumentino gli investimenti nel sociale, nella scuola, nell’assistenza, nelle campagne (punto di forza di RN), le sinistre saranno costrette a negoziare e ridimensionare le loro pretese, ammorbidendole.

Ed è evidente che non possono governare se non a forza di sanguinosi compromessi con chi è arrivato dietro, ma non molto, ossia Ensemble!, la coalizione macroniana, in cui si mostra da un lato disponibilità a discutere (“Si è entrati nel tempo del pluralismo”, ha dichiarato François Bayrou, presidente di MoDem, una delle componenti macroniane, ma ha anche detto no all’aumento del reddito minimo e alla revisione dei pensionamenti), dall’altra fermezza contro le derive estremiste di una sinistra radicale di cui Mélenchon è l’alfiere. Alla fine Mélenchon dovrà rinunciare al premierato, e la sua rinuncia come verrà compensata?

Non è tutto. Prima, si dovranno comporre le differenti posizioni che caratterizzano le varie componenti del Fronte Popolare, inevitabilmente litigioso al suo interno (l’ho potuto constatare domenica sera smanettando sui canali delle tv francesi). Morale della favola (anzi, dell’incubo): per questa sinistra spacchettata, nonostante l’unità faticosamente raggiunta nel Fronte ma soltanto in funzione anti Le Pen, sarà un’impresa. E dopo, si troverà di fronte chi era stato dato per spacciato e si ritrova resuscitato, contro ogni pronostico, con pochi deputati in meno del Fronte. Forze quasi paritarie. Altra parola chiave emersa in queste ore è “utilità”. Per superare differenze, ideologie, posizioni, badare al bene comune, rimettere in piedi lo Stato, garantire la governabilità. L’anticamera di un possibile governo tecnico? L’esempio italiano con Mario Draghi l’ha evocato Le Monde… Teoricamente, i due schieramenti possono ampiamente creare un governo di “salute nazionale”, concordando su alcuni punti “essenziali”: istruzione, sanità, forse pensioni, un ritocco allo Smic, il reddito minimo, aiuti all’agricoltura e all’occupazione.

Quanto alla Le Pen, tra i due litiganti, non è che lei possa godere. Se una cosa è assodata, è che due terzi dei francesi le hanno detto di no. Uno smacco pesante: 142 deputati quando ne immaginavano quasi il doppio, o, perlomeno, più di 210. Sogni morti all’alba. Mentre le sinistre festeggiavano in place de la République a Parigi, i dirigenti del Rassemblement sibilavano accuse ed insulti contro gli accordi “immorali”, le alleanze “contro natura”, il “colpo di Stato della democrazia”, non accettando la realtà. E Marine Le Pen, col fiele in bocca, ha promesso: “La vittoria è solo rimandata, intanto siamo il primo partito dell’Assemblea”. Magra quanto inutile consolazione. Già da ora dovrà assicurarsi che gli alleati come il nizzardo Eric Ciotti, il presidente dei Repubblicani che ha spaccato il partito per accordarsi con la Le Pen (su sollecitazione del miliardario Vincent Bolloré, il regista “nero” dell’alleanza: ha schierato il suo impero mediatico dando l’ordine di seguire con particolare attenzione RN), non ritorni all’ovile, avendo perso la scommessa. Lui è il padrone della Costa Azzurra, le sinistre hanno trionfato nelle città, ma non a Nizza. Cosa che ha immediatamente rimarcato nel suo breve discorso, dopo aver vinto il ballottaggio. E che ha ribadito il giorno dopo: “Ciò che è successo è impensabile. Un’aberrazione. Una vergogna. Una soupe à la grimace!”. Una zuppa che fa schifo…

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