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L’aumento dei costi dei trasporti marittimi riaccende i riflettori sulla “Rotta del mare del Nord”. Ma i rischi non mancano

Ben 6.855 dollari. È quanto costava in media trasportare un container tra l’Asia e il Nord Europa alla fine dello scorso giugno. In appena due mesi il prezzo delle spedizioni tra i due continenti è lievitato di oltre il 110% mentre rispetto all’anno prima il costo è quintuplicato, secondo la società di analisi Xeneta. Effetto Gaza: gli attacchi delle milizie yementite houthi contro le navi in transito nel Mar Rosso hanno reso i commerci tra le due estremità dell’Eurasia più lunghi e molto più onerosi. Soprattutto, con il lento conto alla rovescia verso il Natale, gli esportatori cercano di giocare d’anticipo, avviando le spedizioni anche un mese prima del solito. Fattore che aumenta la domanda e contribuisce a rincarare la spesa per la logistica.

La guerra in Medio Oriente, certo. Ma quello della volatilità degli scambi commerciali tra Oriente e Occidente è in realtà un problema noto da tempo. Nel 23 marzo 2021 la portacontainer a Ever Given si incagliò nel Canale di Suez rendendolo impraticabile per giorni. Poi la prolungata siccità ha costretto ad una riduzione sostanziale dei passaggi giornalieri attraverso il Canale di Panama, la più importante via di comunicazione per il commercio marittimo tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico. La necessità di stabilizzare i flussi commerciali ha quindi riacceso l’attenzione sulla Rotta del Mare del Nord (NSR), uno dei tre percorsi che – insieme alla rotta transpolare (TSR) e al passaggio a nord-ovest (NWP) – formano la cosiddetta rotta artica.

ll riscaldamento globale sta provocando un progressivo scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più navigabili acque un tempo impercorribili. Il potenziale è enorme: la NSR potrebbe quasi dimezzare il tempo di viaggio tra Europa e Asia. Ma al momento è percorribile solo per circa 20-30 giorni all’anno ed esclusivamente lungo il tratto tra il Mar di Kara, al largo della costa nordoccidentale della Siberia, fino allo Stretto di Bering, che separa la Russia dall’Alaska. Sono appena 5.600 chilometri in tutto. Ma via via che la calotta artica si scioglie, la rotta potrebbe essere estesa alla Scandinavia, offrendo un accesso più agevole al Mare del Nord rispetto al Baltico. Trasportare un carico tra Shanghai e San Pietroburgo diventerebbe così un’operazione di circa 20 giorni, rispetto ai circa 36 giorni necessari per attraversare il Mar Rosso e il Canale di Suez.

La Russia, che controlla oltre la metà della costa artica, ambisce al potenziale economico dei corridoi marittimi del nord fin dall’epoca sovietica. Negli ultimissimi anni, l’ “amicizia senza limiti” con la Cina sembra aver dato un nuovo impulso ai piani regionali di Mosca, un tempo perlopiù preclusi alla cooperazione internazionale per motivi strategici. Ora non più. Se la Russia, indebolita dalla guerra in Ucraina, è in cerca di risorse economiche, Pechino guarda a Nord per aggirare le tratte tradizionali attraverso lo stretto di Malacca e l’Oceano Indiano, sempre più instabili a causa delle tensioni con gli Stati Uniti e i suoi alleati asiatici.

Proprio alla creazione di nuovi corridoi commerciali tra l’Asia Orientale, l’Europa e il Nordamerica passando attraverso l’Artide, guarda la cosiddetta Polar Silk Road, declinazione artica della Nuova via della seta, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia. Dal 2016 la statale China National Petroleum Corporation e il Silk Road Fund hanno affiancato la russa Novatek e l’azienda francese Total nello sviluppo di un giacimento di gas naturale liquefatto nella penisola di Yamal, così come nel progetto Arctic LNG-2, nella Siberia settentrionale. Ma è soprattutto alle infrastrutture, vero fiore all’occhiello della Nuova via della seta, che Pechino punta.

A maggio Cina e Russia hanno concordato di istituire una commissione per “promuovere lo sviluppo della rotta marittima artica in un importante corridoio di trasporto internazionale”. Quello stesso mese imprese cinesi si sono dette disposte a investire nel primo terminal marittimo per il trasbordo di gas di petrolio liquefatto (GPL) nel porto di Sovetskaya Gavan, nell’Estremo Oriente russo. Piani analoghi sono in corso presso lo scalo di Ust-Luga, nella regione di Leningrado, e il porto di Arkhangelsk, sul Mare di Barents. Il tutto a un anno dall’apertura dello scalo di Vladivostok al transito transfrontaliero per il trasporto delle merci dalle province cinesi dello Heilongjiang e del Jilin.

Scommettere sulla NSR non è però un’operazione priva di rischi. Non solo per via delle condizioni climatiche ancora troppo poco favorevoli: secondo Rosatom, l’anno scorso sono stati effettuati solo 80 transiti lungo la rotta, rispetto ai 26.000 attraverso Suez. Le sanzioni occidentali contro Mosca espongono la Cina a contraccolpi difficili da schivare. Il mese scorso la cinese Penglai Jutal Offshore Engineering Heavy Industries – specializzata nella tecnologia per la liquefazione del gas naturale – è stata sanzionata dagli Stati Uniti per il suo coinvolgimento in progetti energetici in Russia. Pochi giorni dopo, Wison New Energies, società cinese che ha fornito attrezzature per il progetto russo Arctic LNG 2, ha dichiarato che avrebbe sospeso le sue operazioni nel paese “dopo un’attenta e approfondita valutazione”.

Vale dunque la pena rischiare? Secondo quanto dice a IlFattoquotidiano.it Feng Yujun, direttore del Center for Russian and Central Asian Studies presso la Fudan University di Shanghai, “La Cina non dovrebbe esserne così entusiasta: la rotta artica non mi pare sia un’opzione economica ragionevole, è più un progetto geopolitico della propaganda russa”. Perplessità condivise anche altri colleghi. “Il buon senso suggerisce che ogni volta che si riceve un favore, bisogna pagare, soprattutto nei rapporti con la Russia, uno dei commercianti più esigenti al mondo”, ci spiega Shi Yinhong, studioso di relazioni internazionali nonché consulente del governo cinese. “Aiutare ulteriormente (Mosca) nella sua guerra? Importare gas e petrolio russo più costosi? Concedere ampio margine di manovra nella gestione dei suoi principali alleati, Bielorussia e Corea del Nord? Non lo so, ma penso che la Cina debba pagare qualcosa (in cambio di quanto ottenuto finora)”, azzarda l’esperto.