L’Italia è il Paese che a causa dell’inflazione ha registrato “il maggior calo dei salari reali tra le maggiori economie dell’Ocse“. Peggio ancora, “nel primo trimestre del 2024 i salari reali erano ancora inferiori del 6,9% rispetto a prima della pandemia“. A registrare il poco invidiabile primato è la nota Paese dedicata all’Italia all’interno del rapporto dell’Ocse sulle Prospettive dell’occupazione nel 2024, presentato martedì. Quei dati smentiscono la propaganda del governo: solo un mese fa Giorgia Meloni aveva parlato di “cambio di passo” sugli stipendi rivendicando – come fossero suoi meriti – il progressivo calo della corsa dei prezzi e la timida salita delle retribuzioni contrattuali grazie al rinnovo di alcuni ccnl.

Il quadro descritto dall’organizzazione parigina è ben diverso. Se il mercato del lavoro appare solido, con occupati a livelli record e una costante crescita dei contratti stabili, “l’Italia è ancora indietro rispetto a molti altri Paesi Ocse in termini di occupazione femminile e giovanile, dove sono necessari ulteriori progressi, anche per coprire il numero relativamente elevato di posti di lavoro vacanti”. Non solo: basta allargare lo sguardo e fare un confronto con gli altri Stati industrializzati per rendersi conto che la discesa del tasso di disoccupazione al 6,8% non basta per allinearci alla media Ocse (4,9%) e anche il tasso di occupazione (62,1%) resta ben al di sotto quello dei partner (70,2% nel primo trimestre 2024).

Preoccupante, poi, l’evoluzione in negativo del potere d’acquisto di chi ha un posto, coerente con l’aumento della povertà assoluta tra i lavoratori dipendenti registrato dall’Istat. Già un anno fa l’Ocse aveva rilevato che la Penisola, in seguito alle conseguenze del Covid e alla fiammata dei prezzi innescata dalla guerra in Ucraina, stava registrando la contrazione più forte tra le principali economie dell’area. A 12 mesi di distanza il recupero è minimo, avverte il report. Il divario rispetto al pre pandemia resta del 6,9%: peggio va solo in Repubblica ceca e Svezia (vedi grafico sotto).

Questo nonostante “in molti Paesi” ci sia “spazio per i profitti per assorbire ulteriori aumenti salariali”. Ovvero le imprese potrebbero permettersi di fare uno sforzo per compensare meglio i propri collaboratori, invece che lamentare – come spesso avviene – la difficoltà di trovare nuovi addetti. E l’Italia è tra quei Paesi, come confermato dal governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, che durante l’assemblea dell’Abi ha ribadito come l’attuale aumento delle retribuzioni rappresenti “un inevitabile recupero del potere d’acquisto” e “i cospicui profitti sin qui accumulati” consentano alle imprese di “assorbire la crescita salariale senza trasferirla sui prezzi finali”.

Ma come si sono stanno muovendo in concreto i datori di lavoro italiani? Finora “grazie ai rinnovi di importanti contratti collettivi, soprattutto nel settore dei servizi”, la crescita dei salari negoziati è arrivata al 2,8% rispetto all’anno precedente. Stando alle previsioni, però, nei prossimi due anni “la crescita dei salari reali dovrebbe rimanere contenuta”: i salari nominali in Italia dovrebbero crescere del 2,7% nel 2024 e del 2,5% nel 2025, aumenti “significativamente inferiori a quelli della maggior parte degli altri Paesi Ocse”. Visto che l’inflazione è data all’1,1% nel 2024 e al 2% nel 2024, in tasca rimarrà qualcosa ma il recupero riguarderà solo una parte del potere d’acquisto perduto. Morale: a fine 2025 i dipendenti continueranno ad essere più “poveri” rispetto al pre Covid. Il discorso vale anche per i dipendenti pubblici: a ufficializzarlo è il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo che proprio martedì in un’intervista alla Stampa conferma come non ci siano abbastanza soldi per rinnovare i contratti della pa recuperando tutta l’inflazione: “Sarebbero serviti 30 miliardi” e “purtroppo occorre fare i conti con la realtà”, dice.

Dall’Ocse arriva infine anche un richiamo sulle misure varate dal governo per sostituire il Reddito di cittadinanza: l’Assegno di inclusione (Adi) e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), che stando ai dati appena resi pubblici dall’Inps hanno raggiunto rispettivamente 697.640 nuclei – contro i 737mila che erano l’obiettivo dichiarato dalla ministra Marina Calderone – e 96.161 persone presunte “occupabili”. “Estendere l’accesso all’Adi a tutta la popolazione a rischio di povertà e con limitate prospettive di lavoro permetterebbe di proteggere i più vulnerabili concentrando le limitate risorse per la formazione sulle persone più vicine al mercato del lavoro”, è il suggerimento degli analisti dell’organizzazione. E ancora: “Gli incentivi al lavoro per i beneficiari dell’Adi potrebbero essere migliorati con una revoca più graduale dei diritti alla prestazione per coloro che iniziano a lavorare”. Chi prende il sussidio e inizia a lavorare può continuare a riceverlo, ma il nuovo reddito non concorre al calcolo del beneficio solo entro un limite di 3.000 euro lordi all’anno. Due mesi fa anche la Commissione europea aveva rilevato che la riforma delle politiche anti povertà “riduce in maniera significativa la copertura dello schema di reddito minimo” e avrà come effetto “una maggiore incidenza della povertà assoluta e infantile”.

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