La prima esperienza da presidente del Consiglio in carica alle elezioni europee ha impartito un’importante lezione a Giorgia Meloni: contrattare a Bruxelles significa districarsi in un gioco di equilibri, sensibilità e ambizioni all’ennesima potenza rispetto a ciò che avviene a livello nazionale. E a separare chi vince da chi perde non sono solo i voti ottenuti, ma anche e soprattutto l’accuratezza dei propri calcoli, come ha certamente capito dopo l’ultimo Consiglio europeo. Adesso, però, le rimangono meno di 10 giorni per mettere in pratica l’esperienza acquisita: il 16 luglio si votano le cariche parlamentari, il 18 l’aula deciderà sulla fiducia a Ursula von der Leyen. Per Meloni può finire con un successo o una catastrofe: non sarà importante solo strappare un commissario di peso, per il quale basterebbe l’appoggio alla presidente della Commissione uscente, ma anche arginare l’avanzata del nuovo gruppo di Viktor Orbán e l’emorragia di partiti di Ecr. Oltre all’irrilevanza al Berlaymont, la premier rischia di contare molto poco anche nella Plenaria di Strasburgo.

Il metodo D’Hondt e la corsa per le commissioni parlamentari
Per capire la lunga lista di matrimoni e tradimenti registrati in questi giorni tra partiti e famiglie europee, con il premier ungherese che ha presentato la sua nuova creatura cresciuta grazie alla campagna acquisti ai danni dei gruppi Identità e Democrazia e dei Conservatori, è necessario ricorrere ai numeri. Al momento, il Parlamento è così composto: 188 eurodeputati del Ppe, 136 dei Socialisti, 84 dei Patrioti d’Europa di Orbán, 78 di Ecr, 76 di Renew, 53 dei Verdi e 46 di The Left, con Id che non ha i numeri per costituirsi.

Nel corso della sua campagna elettorale, Meloni lo ha ripetuto a ogni sua apparizione: l’Europa va cambiata, va riformata. Per farlo, però, non c’è bisogno solo di una Commissione che avanzi delle proposte e di un Consiglio che le deliberi, ma anche di un Parlamento che scriva le leggi, le discuta e, infine, le approvi. E proprio guardando all’aula di Strasburgo si capisce perché limitare l’ascesa del nuovo gruppo di Orbán diventi vitale per i Conservatori.

Come detto, dentro ai Patrioti d’Europa, diventato terzo gruppo dell’aula superando proprio Ecr, troviamo 12 partiti per 84 seggi: Fidesz, Rassemblement National, Lega, Vox, PVV, Vlaams Belang, ANO 2011, Chega, Fpö, Partito Democratico danese, Voce della Ragione e Latvia First. Secondo il metodo D’Hondt utilizzato per redistribuire le cariche in Parlamento, il superamento dei Patrioti ai danni di Ecr non provoca gravi ripercussioni nella nomina dei vicepresidenti dell’Eurocamera: al Ppe ne spettano 4, ai Socialisti 3, ai Patrioti 2 così come a Ecr, mentre Renew, Verdi e The Left si accontenteranno di uno ciascuno. Lo stesso vale per i cinque Questori, ruolo prettamente amministrativo ma al quale è anche attribuita la gestione finanziaria focalizzata sugli eurodeputati. Il Ppe ne avrà due, mentre uno ciascuno saranno di marca socialista, Patrioti e conservatrice.

Più delicata la situazione nelle commissioni parlamentari che sono 20 e alle quali si aggiungono 4 sottocommissioni. Anche i presidenti delle singole commissioni, dove si scrivono, si dibattono e modificano in prima istanza le proposte di legge, sono redistribuiti con il metodo D’Hondt, ma l’ordine delle scelte qui diventa fondamentale. Ogni commissione può essere più o meno appetibile per ogni partito o Paese in base a diversi fattori: i dossier trattati, l’importanza di essi a livello globale ma anche nazionale, i fondi a disposizione, il numero di membri e così via. Poter scegliere prima degli altri significa poter esprimere il presidente nelle commissioni più ambite. In questa situazione, il Ppe dovrebbe avere 7 presidenti di commissione o sottocommissione, i Socialisti 5, Patrioti, Ecr e Renew 3, Verdi 2 e The Left 1. La differenza, se ci si concentra su Patrioti ed Ecr, sta nel fatto che i primi potranno esprimere la quarta, la tredicesima e la diciannovesima scelta, mentre ai secondi spetterà la quinta, la quattordicesima e la ventitreesima scelta.

Quest’ultimo particolare fa capire perché anche il distacco, e non solo la posizione nella classifica dei gruppi più numerosi, è fondamentale: maggiore è la differenza di seggi e maggiore è la possibilità, per chi sta dietro, di avere meno cariche e con possibilità di scelta più limitata. A questo si aggiunge il fatto che ogni gruppo, all’interno di una commissione, nomina un suo coordinatore: il suo peso specifico nella discussione è dato anche e soprattutto dal numero di eurodeputati che coordina. In una commissione formata, ad esempio, da 80 eurodeputati, coordinarne 5 o coordinarne 20 cambia il peso della carica.

Tutti questi calcoli valgono però solo dopo aver fatto una premessa: la maggioranza che verrà individuata in Parlamento non dovrà mettere alcun ‘cordone sanitario‘ al gruppo dei Patrioti d’Europa, come scelto di fare nell’ultima legislatura con Identità e Democrazia. Questo, ad esempio, potrebbe essere elemento di trattativa per Meloni con Ursula von der Leyen in cambio dell’appoggio alla presidente della Commissione uscente. Una mossa non così semplice come sembra, per diversi motivi. Innanzitutto sarebbe in contrasto con ciò che, ad esempio, tutti i leader del governo italiano ripetono da settimane: rispettare il voto dei cittadini. Secondo, questo cordone escluderebbe nomi pesanti dalla redistribuzione delle cariche: ad esempio due partiti maggioritari in altrettanti governi come Fidesz e PVV (che farebbero scontare l’affronto in sede di Consiglio Ue), uno che potrebbe presto diventarlo come gli austrici di Fpö e un Rassemblement National che, nonostante la sconfitta alle ultime consultazioni politiche in Francia, rimane una formazione da 30 eurodeputati che ambisce alla Presidenza. Senza dimenticare che sarebbe escluso un altro partito di governo e alleato proprio di Meloni e Tajani: la Lega.

Le opzioni di Meloni: dare sostegno a von der Leyen
Consapevole di come è organizzato questo sistema e dovendo bilanciare le esigenze parlamentari con quelle relative a un incarico di peso al Berlaymont, per Giorgia Meloni si prospettano due possibili strategie. La prima prevede che, alla fine, Fratelli d’Italia ceda e, cercando di ottenere più concessioni possibili, dia il proprio sostegno in Parlamento alla Spitzenkandidatin del Ppe. Un’opzione che è sul tavolo del governo, almeno stando alle dichiarazioni del ministro per gli Affari Europei, Raffaele Fitto: “Non c’è ancora un orientamento – ha premesso – perché si tratta di capire l’evoluzione che ci porterà il 18 luglio e anche di ascoltare quello che si dirà nei confronti che avremo, preventivamente, con la presidente von der Leyen e nel merito del suo discorso di programma. Non è che votiamo sulla base di simpatie o antipatie. Votiamo sulla base di un programma“.

Nessuna preclusione, quindi. Nel caso in cui l’ipotesi si concretizzasse e von der Leyen venisse confermata, l’Italia potrebbe strappare quel commissario di peso più volte richiesto, magari al Bilancio con delega al Pnrr, con Fitto primo candidato a salire a Bruxelles, ma rischierebbe di perdere terreno proprio in Parlamento. Non è chiaro quali siano i paletti stabiliti da FdI e il Pis per costruire il nuovo accordo che ha trattenuto il partito polacco dentro Ecr. Di sicuro sono state riappianate le divergenze sull’organigramma interno, ma se Meloni dovesse sostenere von der Leyen, il rischio che il Pis la molli per andare nel gruppo dei Patrioti è concreto. In quel caso, con 104 seggi a 54, i Conservatori vedrebbero crollare il numero di cariche a loro riservate e anche il peso dei coordinatori e delle commissioni che andrebbero a presiedere.

In caso di sostegno di Meloni a von der Leyen ma mancata riconferma, a causa di franchi tiratori e ribellione sul fianco sinistro della ‘maggioranza Ursula’, è possibile invece che il legame col Pis possa ancora reggere, soprattutto perché il piano B dei Popolari si chiama Roberta Metsola, più conservatrice e di conseguenza più apprezzata anche all’interno di Ecr.

Le opzioni di Meloni: scaricare von der Leyen
L’altra opzione è quella invece di votare contro o astenersi su von der Leyen. L’ipotesi apre a due scenari opposti. Se la candidata del Ppe dovesse essere comunque confermata, Meloni salverebbe il rapporto con i partiti in Ecr ma perderebbe ogni speranza di ottenere cariche di rilievo in Commissione, pur potendo ancora combattere in Parlamento. Inoltre, per i prossimi 5 anni Roma dovrà aspettarsi pugno duro e nessuna concessione sul rispetto degli standard economici ed eventuali procedure d’infrazione.

Se, invece, il suo mancato sostegno dovesse contribuire alla caduta di von der Leyen, Meloni potrebbe sfruttare il nuovo scenario in suo favore. A quel punto, il Ppe potrebbe proporre una candidata come Metsola cercando l’appoggio di Ecr e anche della nuova formazione di Orbán. Il risultato per la premier italiana sarebbe un buon accordo sulla Commissione, rilevanza a livello parlamentare e anche minore rigidezza sul rispetto degli standard economici. Quella che si giocherà tra pochi giorni a Strasburgo è una partita di poker. Giorgia Meloni dovrà sedersi al tavolo sapendo che può uscirne vincitrice, ma anche perdere tutto.

X: @GianniRosini

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