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Alla moschea di Monfalcone una pagina del Corano bruciata e una sporca di escrementi. “In città creato un clima di islamofobia”

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Una nuova minaccia, uno sfregio. Due settimane dopo aver ottenuto dal Tar il pieno diritto a tenere aperti due luoghi di preghiera a Monfalcone, il Centro Culturale Islamico Darus Salaam ha ricevuto per posta una lettera. All’interno, una pagina del Corano bruciata. “Risparmiamo la vista del secondo foglio che è sporco di qualcosa che somiglia molto a feci. Non avendo fatto l’analisi, non possiamo affermarlo con certezza” ha spiegato il portavoce Bou Konatè. Quello che invece è certo è che sulla carta era scritta una frase blasfema: “Il sacro corano che pulisce il c… dei cristiani”.

L'imam di Monfalcone: "Corano bruciato e insulti. Ecco come veniamo trattati"
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Con il tono pacato, ma fermo, Konatè ha ricordato come un’altra provocazione del genere risalga a qualche mese fa e attribuisce questo nuovo gesto “al clima di islamofobia che è stato creato in questa città e in questo Paese”. Afferma che la misura è colma: “Siamo continuamente bersagliati. Chiediamo delle prese di posizione chiare, prima di tutto da parte degli amministratori e dei partiti politici, ma anche di tutte le altre autorità. Francamente non ne possiamo più, non possiamo continuamente essere bersagliati solo perché siamo musulmani”.

Il riferimento è alla vera e propria battaglia, anche legale, messa in piedi dalla sindaca Annamaria Cisint, ora eletta all’Europarlamento con la Lega proprio sull’onda della battaglia contro le moschee. Una “guerra santa” che la prima cittadina ha perso in tribunale, ma ha continuato a combattere per mesi accusando più volte la comunità islamica – assai numerosa in città – di non rispettare le norme urbanistiche e chiudendo con questa giustificazione i loro luoghi di culto. I giudici amministrativi le hanno dato torto e ordinato al Comune di pagare 114mila euro di spese legali. Le moschee, era spiegato nella sentenza, non andavano chiuse, perché non avevano violato le norme e le motivazioni addotte dall’ente pubblico erano comunque generiche e insufficienti. “È errato – spiegano i giudici – l’assunto su cui poggia l’ordinanza quando si afferma che la nuova destinazione d’uso è incompatibile con la zona nella quale è ubicato l’immobile. Dall’altro lato, è rimasto ampiamente indimostrato che la modifica abbia inciso sugli standard urbanistici”.

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