Da Manuale d’amore a Coca-Cola sono passati venti anni. Il marchio di Atlanta è un nuovo sponsor del Napoli. Si tratta di un obiettivo molto più importante, sicuramente propedeutico ma poco risonante, dell’arrivo di Antonio Conte. E pensare che la squadra del Napoli, sotto la gestione di De Laurentiis, ha esordito nel 2004 in Serie C senza sponsor ufficiale sulla maglia per ben sette partite, circostanza che spinse il presidente a colmare quel vuoto pubblicizzando alcuni dei suoi film come Sky Captain, Christmas in Love e Manuale d’amore. Nella seconda parte del campionato (24^ giornata), passò al marchio Mandi, che identificava i centri commerciali poi caduti in default, di proprietà di Zamparini, l’ex presidente del Venezia e del Palermo, scomparso nel 2022.
Anche se il Napoli è ancora lontano dagli introiti per sponsorizzazioni della Juventus (circa 110 milioni di euro), passare in due decenni da zero a 42 milioni di tali specifici ricavi (bilancio al 30 giugno 2023) è un bel salto, soprattutto in termini di Corporate Identity.
Per chi non è addetto ai lavori, la Corporate Identity rappresenta l’immagine complessiva che un’azienda trasmette all’esterno. È l’insieme di tutti gli elementi che permettono a un’azienda di essere riconosciuta e distinta dai suoi concorrenti: logo, colori, comunicazione, valori, comportamenti e, soprattutto, la percezione che i clienti, i fornitori e il pubblico in generale hanno di essa.
Le strategie di marketing sono trasversali a ogni area di business dell’azienda di calcio (compravendita di calciatori, biglietti, diritti televisivi e poi anche magliette e gadget) e si basano sulla necessità quasi irrinunciabile di costruire una marca e quindi una Corporate Identity. Questa genera un senso di appartenenza da parte dei diversi segmenti di clientela (altre società calcistiche, network televisivi e media, sponsor e tifosi/fan) e di fornitori (in primis calciatori e dirigenti).
Una confusione che spesso affligge chi scrive di calcio e si improvvisa anche esperto di marketing è pensare che i tifosi siano i soli e principali clienti di un’azienda di calcio. Sono importanti perché nel calcio il senso di appartenenza e il livello di fidelizzazione del cliente-tifoso sono quanto mai tribali. Infatti, nei loro confronti si applica un marketing tribale, il marketing delle tribù di consumo. Una tribù di consumo postmoderna può essere definita come un gruppo di persone accomunate dalla passione per una marca, indipendentemente dal prodotto che quella marca realizza. Questi individui condividono esperienze e rituali intorno al brand, rafforzando il senso di appartenenza dei propri membri. Nella maggior parte dei casi, diventano ambasciatori della marca e creatori di un passaparola davvero efficace per il brand poiché i messaggi comunicati dalle tribù non essendo veicolati direttamente dalla società risultano più credibili agli occhi dei consumatori. Gli appartenenti alle comunità di marca sono molto più che semplici clienti fedeli: si sentono parte del brand e di tutti i valori che comunica, ne condividono gioie e dolori, e questo accade in modo particolarmente marcato nel caso delle società di calcio. La passione per una squadra spesso spinge i suoi tifosi a compiere grossi sacrifici che i club devono essere in grado di ripagare non solo attraverso le vittorie.
Tutto ciò ha come obiettivo principale l’espansione della propria fan base in modo da ottenere ritorni economici maggiori, sia direttamente attraverso la vendita di prodotti a proprio marchio che diventano veri e propri simboli per i “rituali” delle tribù calcistiche, sia indirettamente. Avendo maggiore visibilità, le società possono, infatti, richiedere contratti di sponsorizzazione più elevati, vendere i diritti televisivi a prezzi più alti e, non meravigliatevi, essere anche più influenti nel convincere un’altra società ad acquistare Osimhen per 120 milioni di euro!
Se suddividiamo le varie componenti di cui è espressione la marca tra risorse di credibilità, legittimità e affettività, quella che per i brand calcistici appare la più risonante è sicuramente l’ultima. Le emozioni e il coinvolgimento che vive un appassionato durante le partite della propria squadra sono talmente intense che il tifo viene generalmente definito come “fede”. Le società calcistiche più attente alla gestione della propria marca, come ha fatto il Napoli negli ultimi anni, si impegnano quindi in un’ampia e complessa strategia di brand building, tesa a fare in modo che il tifoso-consumatore riconosca, a confronto con i prodotti concorrenti, valori aggiunti unici e difficilmente emulabili dagli altri club.
Quando parliamo di tifosi del Napoli, non pensiamo solo a quelli nati a Mergellina, perché oggi il web offre la possibilità di raggiungere tifosi in ogni angolo della terra e di farli sentire parte di una comunità. Sono presenti, nonostante la lontananza, in uno “stadio virtuale” dalla capienza sostanzialmente illimitata che va oltre i confini nazionali, per coinvolgerli e offrire loro una varietà di servizi. Questa interazione tra club e tifosi a livello globale produce di conseguenza un loop di interessi da parte di altre aziende riguardo all’opportunità di porsi come sponsor o partner commerciali della società, al fine di sfruttare l’enorme visibilità che tale collegamento può offrire. Investire nel marchio significa quindi ideare e implementare strategie di gestione e commercializzazione del brand in qualsiasi area di business.
Tra l’altro, è la stessa società Napoli a dichiararlo sul proprio sito, laddove ribadisce che la mission aziendale «è la creazione della brand equity, cioè la realizzazione di quel complesso mix di elementi che, attraverso il perseguimento di obiettivi legati alla notorietà e alla fedeltà al brand, alla percezione di qualità, alla differenziazione nell’ambito del mercato competitivo di riferimento, aggiungano valore per consolidare partnership internazionali». Attività del genere devono basarsi però su un’effettiva conoscenza delle potenzialità del marchio stesso, cioè del suo valore sul mercato, in quanto soltanto conoscendo tale valore è possibile ottenere il massimo dalle negoziazioni relative ai diritti televisivi, alle sponsorizzazioni e agli altri accordi commerciali.
Ora forse si riesce a capire perché Coca-Cola, Amazon, Armani, Konami, MSC, UPbit, Socios e tanti altri grandi brand si sono avvicinati al Napoli e forse anche a Napoli. Del resto, basta confrontare gli attuali sponsor del club con quelli che erano attratti dal brand all’inizio della gestione De Laurentiis. È vero, pecunia non olet, ma una società con un profilo internazionale non poteva continuare a richiamare l’interesse di sponsor che partivano dalla provincia di Caserta e finivano al CIS (Centro Ingrosso e Sviluppo) di Nola.
E pensare che c’è ancora, soprattutto tra gli imprenditori napoletani, chi contesta a De Laurentiis la capacità di gestire una azienda-calcio.