Cultura

Come sono cambiati i musei dopo dieci anni di Riforma Franceschini? Tanti soldi, ma resta il nodo assunzioni. Il parere di 4 ex direttori

I soldi. Una montagna di soldi. Inizialmente per dimostrare all’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che con la cultura ci si mangia eccome. Poi perché da un diverso sistema di gestione dei beni culturali, la politica poteva trarre benefici anche non prettamente economici, ma d’immagine, che coi tempi che corrono, è anche meglio. La riforma dei beni culturali entrata in vigore alla fine del 2014 – universalmente nota come Riforma Franceschini – compie 10 anni. Periodo di tempo durante il quale, per esempio, gli incassi lordi dei musei (esclusi quindi i monumenti e le aree archeologiche) sono passati dai poco più di 18,5 milioni di euro del 2013 ai quasi 120 milioni del 2023. Se consideriamo, quindi, l’aspetto economico, la Riforma Franceschini può essere considerata un successo, frutto di alcune scelte per così dire rivoluzionarie, ma che nasceva da una sorta di capriccio.

Era il novembre del 2012 e, a causa di certe resistenze della soprintendenza fiorentina circa la ricerca de La battaglia di Anghiari (la pittura murale realizzata da Leonardo da Vinci nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, e poi irrimediabilmente perduta), il ministro per i Beni culturali del governo Monti, Lorenzo Ornaghi, fu oggetto di un attacco verbale da parte dell’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi: “Il Mibac è un luogo dove si usa un linguaggio da Ottocento”. E ancora: “Il ministero dei beni culturali non funziona, è vittima dei burocrati. Bisogna avere il coraggio di dirlo. E cambiare”. Dalle parole si passò presto ai fatti.

Nelle intenzioni dell’allora sindaco e futuro premier la spinta economica della riforma parve essere sullo sfondo, ma ben presto divenne di primaria importanza, con tutto ciò che ne consegue. La volontà di creare un impianto più moderno per gestire i circa 450 musei statali diffusi su tutto il territorio nazionale prese il sopravvento e, grazie all’intervento di esperti di diritto – a cominciare da Lorenzo Casini, consigliere giuridico del ministro Franceschini – prese corpo la riforma la cui novità principale fu costituita dall’autonomia di un selezionatissimo gruppo di musei statali, staccandoli di fatto dalle soprintendenze di vario tipo operanti sul territorio che fino a quel momento li avevano considerati degli uffici legati al territorio, senza per altro dotarli di alcuna autonomia. Fu da quel momento che la “valorizzazione” dei beni culturali iniziò a contendere attenzioni e soprattutto azioni (e soldi) alla tutela e conservazione del patrimonio, e in tal senso gli esempi si sprecano.

Nacque così il primo nucleo di 20 musei autonomi – cioè dotati di uno statuto, un consiglio di amministrazione e comitato scientifico, un bilancio autonomo e proprie forme di gestione compresa la capacità di progettazione -, tra i quali ve ne erano 7 di livello dirigenziale generale (cioè di “prima fascia”) e altri 13 di “seconda fascia”, mentre oggi i musei autonomi sono 60, cioè triplicati rispetto a 10 anni fa. Vi fu il primo bando internazionale per la copertura dei 20 posti di lavoro come manager di musei e alla fine del 2015 entrarono in servizio i primi dirigenti, alcuni destinati a diventare vere e proprie superstar. Tutti gli altri musei statali italiani da allora sopravvivono nei vari poli museali regionali, realtà variegate ricche di eccellenze, ma per le quali risorse e personale scarseggiano, mentre tutela e conservazione sono due quotidiane necessità cui dover far fronte.

Insomma in 10 anni la Riforma Franceschini ha ottenuto tanti successi, ma molto ancora resta da fare – o da aggiustare – per far sì che il cambiamento sia completo e porti al sistema di gestione dei beni culturali quel beneficio di cui si sente un gran bisogno, soprattutto a livello di tutela dei beni non solo museali, ma anche del territorio, considerato che tutta l’Italia è un “grande museo diffuso” ma il cui mantenimento è una quotidiana scommessa. Perché il patrimonio che tutto il mondo ci invidia e che è tutelato (a parole) dall’articolo 9 della Costituzione non è il nostro petrolio, destinato cioè all’uso e consumo di chi paga finché dura, ma è la testimonianza più alta della nostra civiltà, per la quale vale la pena impiegare risorse affinché sia protetta, conservata e possibilmente studiata.

Con la volontà di dar la parola agli addetti ai lavori, ilfattoquotidiano.it ha chiesto a quattro esperti – due che la Riforma Franceschini l’hanno solo sfiorata e altri due che invece l’hanno vissuta in pieno – di sintetizzare pregi e difetti del provvedimento che 10 anni fa cambiò la gestione dei beni culturali italiani.

Cristina Acidini, ex soprintendente per il Polo Museale Fiorentino
“Una delle finalità della riforma Franceschini del 2014 era conferire maggior grado di autonomia ai grandi musei d’arte e siti archeologici: e quella è stata raggiunta, almeno in parte, anche se continua a mancare un provvedimento decisivo, vale a dire l’assunzione e gestione autonoma del personale, che caratterizza invece il governo dei musei all’estero, specialmente in aree di lingua anglosassone. La promozione, l’attenzione (e le risorse) dedicate ai musei autonomi hanno, com’era da aspettarsi, svantaggiato quei musei che, nonostante i loro pregi, non attirano introiti paragonabili, così come hanno ridotto la capacità di intervenire sui beni nel territorio, sotto la tutela delle soprintendenze “miste”. Il ministero fondato da Spadolini aveva già cambiato struttura (e proprio in questi giorni la sta cambiando di nuovo), ma fino al 2014 non erano stati introdotti significativi elementi di squilibrio. Merita infine che si consideri prioritario il mantenimento di istituti d’eccellenza, qual è ad esempio l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze”.

Rossella Vodret, ex soprintendente speciale per il Patrimonio storico-artistico e antropologico e del Polo Museale della Città di Roma
“Nata sull’onda della spending review la radicale riforma Franceschini è giunta nel 2014 dopo una serie di mini riforme che avevano, negli anni immediatamente precedenti, già pesantemente alterato la struttura del ministero dei Beni Culturali. Risultato: taglio di 37 posti (e stipendi) dirigenziali: 6 dei quali di prima fascia e 31 di seconda fascia. La riforma ha avuto aspetti positivi e negativi. Tra quelli positivi a mio avviso si può porre senz’altro la trasformazione delle direzioni regionali, che svuotavano di competenze le soprintendenze di settore, in segretariati regionali con un più definito ruolo esclusivamente amministrativo. Tra gli aspetti più problematici è da evidenziare la netta separazione dei grandi musei dai territori di cui sono espressione, dotandoli di autonomia gestionale e finanziaria. La scelta segue la logica e i modelli dei grandi musei internazionali, ma non rispetta la peculiarità della storia e della cultura italiana: le gallerie nate dalle collezioni delle famiglie papali romane, nonché i musei nati dalle raccolte delle case regnanti degli Stati preunitari fanno parte di un tessuto connettivo che comprende, sul territorio, anche chiese, palazzi, cappelle ecc. con cui hanno un profondo legame dovuto alla comune committenza. Un tessuto connettivo unico che, con la nascita dei musei autonomi, è stato alterato. Un altro elemento critico è stata, a mio parere, la creazione di soprintendenze territoriali miste al posto di quelle per competenza di settore, che hanno dato vita a strutture enormi, come quelle delle Soprintendenze Speciali di Roma e Firenze, alle quali è affidata la tutela di tutti i beni storico-artistici, architettonici e archeologici ricadenti nei rispettivi territori, per di più senza avere un’assegnazione di personale sufficiente. Realtà assolutamente impossibili da gestire in modo adeguato, anche se dotate di direttori di grande efficienza e abilità. Per non parlare delle direzioni regionali dei Musei che meriterebbero un profondo ripensamento organizzativo…”.

Mauro Felicori, ex direttore manager della Reggia di Caserta
“La riforma del 2014 è stata un successo perché, separando i musei dalle soprintendenze cui afferivano, hanno posto le basi di una gestione aziendale, vorrei sperare imprenditoriale, delle collezioni statali; lo stesso si può dire per i bilanci autonomi che, permettendo di trattenere le entrate, incentivano ad aumentarle, ovviamente non a scapito delle finalità culturali degli istituti; ma il ‘segreto’ più fecondo è stato l’ingresso nella amministrazione statale di direttori cercati sul nascente mercato del lavoro, provenienti da comuni, università, fondazioni, non solo italiane; con selezioni agili ma severe, commissioni autorevolissime, e comunque arruolati a tempo determinato. I risultati si sono visti, e continuano a generarsi, come dimostra anche l’ultima rilevazione sui visitatori 2023. Cosa manca? Principalmente la gestione del personale, che resta del ministero. È questa la differenza fra musei statali autonomi e i musei gestiti da fondazioni, che infatti hanno performance mediamente ben superiori. Sarà difficile superare il timore dei sindacati, però. Una misura intermedia potrebbe essere quella di autorizzare i musei statali ad assumere a carico del proprio bilancio e a tempo determinato”.

Marco Pierini, ex direttore manager della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia
“La riforma ha posto le basi per una crescita complessiva dei musei italiani impensabile fino a quel momento. L’autonomia ha consentito di implementare i collaboratori (purtroppo non il personale interno), di intercettare finanziamenti di diversa provenienza, di intensificare le partnership, di fornire al direttore strumenti di gestione più adeguati alle necessità dei tempi, parallelamente aumentandone e precisandone le responsabilità. La separazione fra tutela e valorizzazione, quando è stata correttamente intesa solo come diversificazione di competenze e non di intenti, ha dato vita e virtuosi episodi di collaborazione tra tutti gli uffici territoriali del ministero nelle varie regioni. Così ad esempio accadde in Umbria dopo il terremoto del 2016, mantenendo poi la buona prassi della cooperazione anche nell’attività ordinaria. Certo, ogni riforma ha bisogno di essere messa a punto in corso d’opera e aggiornamenti e modifiche sono apparse – talune fin da subito – opportune se non addirittura necessarie. Questo non significa tuttavia che l’impianto di partenza non contenesse in sé gli elementi per uno sviluppo e un ammodernamento dei musei non più rimandabile. Le riforme, però, camminano soprattutto sulle gambe delle donne e degli uomini chiamati ad applicarle e nel caso specifico possiamo dire con una certa sicurezza che qualcuno si mise subito a correre in avanti, qualcun altro tentò azzardi e retromarce, molti infine rimasero fermi aspettando di capire da che parte convenisse muovere il passo. E lì, mi pare, sono tuttora rimasti”.

Il saldo finale: il nodo delle assunzioni dirette
A conti fatti quindi, da un punto di vista economico la riforma è stata un successo, ma ci sono questioni che ancora restano aperte e le criticità non mancano. Tra queste l’assunzione diretta e la gestione del personale pare la più urgente. Ma vi è anche la necessità di potenziare la trasparenza e della capacità di spesa, di poter far ricorso maggiormente al Piano Strategico, di tornare a considerare il museo anche come un centro di studio e di approfondimento, così come sono auspicabili sia una più ampia capacità di produzione espositiva a fini anche scientifici e non solo per “far cassetta”, sia di velocizzare tutte quelle operazioni che rendono possibile il funzionamento dei musei autonomi (nomina dei cda e dei comitati scientifici in tempi rapidi e non biblici, come spesso è accaduto) appena istituiti. Vedremo adesso se, con la fresca istituzione del dipartimento per la valorizzazione del patrimonio che sarà retto dall’archeologa Alfonsina Russo, già direttrice del Colosseo, si proseguirà nella strada del cambiamento.

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Nella foto in alto | Da sinistra Felicori, Vodret, Acidini e Pierini