Politica

La festa dell’Unit* e l’abbaglio di Schlein: perché il sesso delle vocali appassiona così tanto?

Le storie raccontano che, durante l’assedio turco di Costantinopoli, gli assediati erano coinvolti in appassionate discussioni sul sesso degli angeli, al punto di trascurare la difesa della città. Che ovviamente fu conquistata dalle armate ottomane del sultano Maometto II. Come allora, oggi ci troviamo nel bel mezzo di un conflitto culturale in cui le orde dell’oscurantismo reazionario non fanno prigionieri; mentre il campo contrapposto si distrae, preso dalla prioritaria questione del sesso delle vocali. Una moda peregrina che – ormai more solito – giunge da oltre Atlantico e – ahimè – contagia soprattutto il pubblico femminile. Difatti è proprio il Pd “rebrandingizzato” di Elly Schlein a essere il primo portavoce della vague intellettuale, con scelte di alto (?) rilievo politico come la messa all’indice della lettera “à” nel lemma “Unità” riferito all’omonima festa; oggi “restylingizzato” in Unit-asterisco (Unit⃰). L’ennesimo abbaglio – la sinistra alla moda – di un nuovo corso che presume di aver trionfato alle Europee, quando a vincerle sono stati quei caciccati che tale corso dichiarava prioritario eliminare.

Come bene ha scritto Daniela Ranieri venerdì scorso, “oggi per fortuna l’amministrazione Schlein, per statuto inclusiva, multi-gender, non binaria, fluida, ha stanato il vero nemico della classe proletaria: la “à”, che, nell’ottica di chi l’ha sostituita con l’asterisco, finge intenzioni inclusive mentre subdolamente esclude una fetta di popolo suscettibile”. Trattasi soltanto di folklore americanista? Non credo proprio, visto che il furore linguistico ha ben più preoccupanti declinazioni intellettuali.

E non mi riferisco tanto alla gag integralista di genere, per cui se scrivi “Padri Costituenti” c’è chi ti corregge aggiungendo “Madri Costituenti” (nonostante che purtroppo nell’assemblea che varò la nostra veneranda costituzione le fanciulle erano solo una ventina, su 556 membri; il cui contributo si limitò a qualche limatura lessicale). Penso al reiterato attacco da parte di componenti del residuale movimento femminista – così attento all’addolcimento del linguaggio mentre le Meloni picchiano duro e così propenso a implorare concessioni benevole da chi persegue la marginalizzazione delle donne nei ruoli di riproduttrice o “riposo del guerriero” – contro il compagno di lotte che nel Novecento condivise con il femminismo il merito di aver democratizzato la società: il lavoro.

L’auspicio della fine del lavoro, per cui ora la professoressa Denise Celentano arriva a etichettare come “tossica” una certa etica del lavoro, non considerando che è proprio la non casuale estinzione del soggetto politico lavoro a sgombrare il campo, devastato dalle strategie labour saving, dell’unico contrappeso che ne contenesse i danni, con il presidio e il conflitto. Nel ritorno dell’equivoco pernicioso che confonde libertà DEL lavoro (attraverso la conquista e la tutela dei diritti) dalla sconfittista libertà DAL lavoro degli apologeti dell’ozio. In linea col pigolio veltronista, per cui nell’attacco in corso dei ricchi contro i poveri il/la buonista smorza i toni come disarmo unilaterale e nega l’idea stessa dello scontro di classe.

Intanto sento sempre più donne politicamente impegnate ripetere che “aspettano di essere salvate dai robot”. Tesi boccalona, che ripropone dieci anni dopo quella di GianRoberto Casaleggio per cui Internet avrebbe schiuso praterie alla democrazia diretta. Mentre la rete veniva colonizzata dai vari Gafa (Google, Amazon, Facebook, Apple) e i suoi visitatori diventavano merce miliardaria per i signori del silicio. Lo stesso valga per il passaggio dal lavoro vivo a quello morto attraverso l’automazione: c’è qualche ingenuo convinto che in questo caso assisteremmo alla ripartizione dei profitti, creati dell’aumento di produttività, tra padroni e disoccupati felici?

Meno ingenua, Federica Coin ha scritto un saggio l’altr’anno sul rifiuto del lavoro, che oscilla tra due dilemmi: fuga “da un modello produttivo il cui unico scopo è stato tagliare i costi e aumentare i profitti” o “muovere nella direzione di una produzione sostenibile che abbia come primo scopo la cura dell’ambiente e della produzione”. Nodo che si può sciogliere soltanto attraverso quelle che Luigi Einaudi chiamava “Le lotte del lavoro” (testo appena rieditato), altro che la pretesa illusoria di riprendersi la vita rintanati/e nel limbo dell’emarginazione. Coin dice che “tutto è possibile, insieme”. Non certo nell’isolamento, si tratti di occupazione in remoto o disoccupazione. Solo il lavoro, primario determinante sociale, crea l’ambiente in cui fu/è possibile scoprirsi insieme, come classe. Il problema organizzativo al tempo dell’individualizzazione impoverente. La vera priorità politica a Occidente.