La riforma di Carlo Nordio sulla giustizia è legge. Anche la Camera ha approvato il ddl che porta il nome del guardasigilli: 199 i voti a favore sui 301 deputati presenti, 102 i contrari. Come era già accaduto al Senato, pure a Montecitorio le destre incassano il sostegno di renziani e calendiani. “Questo provvedimento va nella giusta direzione. Avremmo voluto migliorare ulteriormente il testo ma pensiamo sia bene che diventi legge senza perdere ulteriori mesi. Voteremo perciò convintamente a favore”, ha annunciato Enrico Costa di Azione. Per i renziani, invece, è intervenuto Roberto Giachetti: “Premetto che voteremo convintamente a favore, anche se non è una riforma epocale”, ma per noi è “il minimo sindacale. Avete abrogato l’abuso di ufficio, dovendo pagare comunque un dazio alla magistratura con l’inserimento nel decreto carceri di un contentino“, ha detto il deputato d’Italia viva, annunciando il voto a favore del suo partito.”La riforma strutturale della giustizia è quella che prevede la separazione delle carriere, ma rischia di non andare in porto per una questione di tempi. Spero non sia così”, ha aggiunto Giachetti.
Nordio ringrazia renziani e calendiani – Ed è proprio dal voto a favore di renziani e calendiani che prende spunto Nordio per commentare il via libera alla sua riforma. “Il fatto che non si siano astenuti ma abbiano votato a favore, lascia ben sperare che troviamo un punto di convergenza quantomeno sulla riforma della giustizia”, ha detto il guardasigilli, che ha poi auspicato l’appoggio di Italia viva e Azione anche sulla separazione delle carriere nella magistratura. “Sarebbe auspicabile possano convergere anche sulla separazione delle carriere”, ha detto Nordio, che poi ha definito la sua riforma come “una svolta nel rafforzamento delle garanzie per gli indagati e una mano tesa a tutti i pubblici amministratori, che non avranno più paura di firmare”.
“Questa legge favorisce l’illegalità” – Contro la riforma hanno votato gli esponenti del Pd, del Movimento 5 stelle e dell’Alleanza Verdi Sinistra. Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale Antimafia eletto dal M5s alla Camera, ha attaccato sopratutto la norma, contenuta nel provvedimento, che abolisce il reato di abuso d’ufficio. “Questa abrogazione è gravissima, l’abuso di ufficio è un reato spia sia per il sistema della corruzione sia per le infiltrazioni mafiose”, ha detto l’ex magistrato. “È una legge che favorisce l’illegalità del potere pubblico: da un lato protegge i colletti bianchi e i mediatori di corruzione, dall’altro silenzia la stampa. Le nuove leggi smantellano il sistema di contrasto alla corruzione. Con questo governo – ha concluso – vengono diffusi messaggi devastanti per la legalità”. Per Federico Giannasi del Pd, invece, la riforma è “in provvedimento bandiera che non ha risorse, portato avanti arroganza. Oggi ottenete uno scalpo a danno dei cittadini, se associamo la cancellazione dell’abuso di ufficio a reati ulteriori che introdurrete ai danni dei cittadini, come la resistenza passiva, ci sarà uno squilibrio enorme” e si percorrerà “la pericolosa strada dell’autoritarismo”, ha detto il capogruppo dem in commissione Giustizia. Devis Dori dell’Alleanza Verdi Sinistra ha invece contestato il fatto che il ddl Nordio introduca una “limitazione alla pubblicabilità delle intercettazioni”, ovvero “un ulteriore bavaglio-bavaglietto al diritto di cronaca giudiziaria”. A proposito dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, secondo il parlamentare di Avs “la destra non pensa ai sindaci e alla loro presunta paura della firma, piuttosto pensa agli amici già condannati. L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio porta con sé anche la cancellazione delle pene già passate in giudicato, secondo il principio della abolitio criminis“.
Cosa succede ora – La riforma, come è noto, prevede l’abolizione tout court dell’articolo 323 del codice penale che disciplina l’abuso d’ufficio. L’effetto immediato dell’approvazione in via definitiva, dunque, sarà che potranno chiedere la revoca della loro condanna tutte lepersone riconosciute colpevoli di aver commesso questo reato: nel casellario giudiziale risultano 3.623 sentenze definitive dal 1997 al 2022. L’eliminazione di una fattispecie da codice, infatti, travolge anche le condanne passate in giudicato, cosa che non sarebbe avvenuta con una riformulazione della norma. Bisognerà capire, ovviamente, quanto influirà la nuova legge approvata nel frattempo dal governo per colmare almeno in parte il vuoto normativo creato con la cancellazione dell’abuso d’ufficio. Nel decreto legge sulle carceri, infatti, l’esecutivo ha infilato un nuovo reato battezzato “indebita destinazione di denaro o di cose mobili“. Una norma varata dopo il pressing del Quirinale, preoccupato dal rischio di una procedura d’infrazione europea. In pratica la nuova fattispecie punirà il cosiddetto “peculato per distrazione“, cioè il reato commesso dai pubblici ufficiali che regalano risorse pubbliche agli amici. Il funzionario che si appropria di denaro o beni della collettività, infatti, è punito con il peculato standard disciplinato dall’articolo 314 del codice. Chi invece destina le risorse pubbliche ad altre persone veniva processato per abuso d’ufficio. Ma dopo l’abolizione di quest’ultimo reato, c’era il rischio che sindaci e amministratori pubblici si mettessero a regalare soldi pubblici agli amici senza rischiare nulla sul piano penale. Nordio, ovviamente, nega si tratti di una pezza. “Non è affatto un correttivo, sono reati completamente diversi, il peculato per distrazione postula che vi sia una distrazione di beni e di fondi al fine di profitto ingiusto. Non ha nulla a che vedere con l’abuso di ufficio che prescinde dallo spostamento di risorse finanziarie”.
Cosa prevede il resto del ddl – Il resto della riforma introduce novità sul fronte delle misure cautelari in carcere. Prima di arrestare un indagato, dunque, servirà procedere al suo interrogatorio. Il bello è che l’indagato andrà avvisato “almeno cinque giorni prima“, tranne nei casi in cui “il giudice ritenga di abbreviare il termine, purché sia lasciato il tempo necessario per comparire”. L’interrogatorio preventivo non vale in caso di pericolo di fuga o inquinamento delle prove, ma anche quando c’è il rischio di reiterazione dei reati più gravi (mafia, terrorismo, violenze sessuali, stalking) o quelli commessi con l’uso delle armi. Un particolare che suggerisce come la nuova garanzia serva soprattutto ad evitare il carcere ai colletti bianchi. A decidere sulle misure cautelari non sarà più un solo giudice per le indagini preliminari, ma ben tre: in questo modo saranno poi tutti incombatibili nelle fasi successive del procedimento. Una novità che bloccherà gli uffici più piccoli: anche per questo motivo entrerà in vigore solo tra due anni. Il ddl introduce anche il divieto di pubblicazione dei dialoghi che non siano stati riprodotti “dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzati nel corso del dibattimento”. Bavaglio anche sulle conversazioni registrate che vengono citate nelle richieste di misure cautelari del pm. Vietato anche indicare “i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione”: in pratica saranno omissati i riferimenti alle terze persone non indagate citate nelle intercettazioni. Viene vietata anche la pubblicazione dell’avviso di garanzia, che dovrà contenere una “descrizione sommaria del fatto”. Introdotto, poi, limitazioni all’applicazione del traffico d’influenze illecite: per essere punibile il mediatore dovrà sfruttare “intenzionalmente” le relazioni con il pubblico ufficiale, che dovranno essere “esistenti” e non più solo “asserite“, cioè millantate. In più l’eventuale utilità data o promessa dovrà essere “economica“: non basteranno i favori diversi da quelli che hanno valore monetizzabile. Il ddl Nordio vieta inoltre al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento per quanto riguarda i reati per cui è prevista la citazione diretta a giudizio, cioè saltando l’udienza preliminare: si tratta di quelli puniti con al massimo quattro anni. Su questa modifica si era già espressa la Consulta, quando aveve dichiarato illegittima la legge Pecorella, approvata dal governo di Silvio Berlusconi: la norma introduceva l’inappellabilità di tutte le sentenze di assoluzione da parte dell’accusa.