Una mattina ti svegli, accendi lo smartphone, guardi le mail in entrata e trovi una mail in aggressivissimo legalese che ti intima di pagare una cifra da capogiro per aver utilizzato un’immagine presa da Internet senza avere la licenza. Mai successa una cosa simile? Spero per voi di no. Negli ultimi anni, richieste come questa, hanno seguito il moltiplicatore della presenza di ognuno di noi sul web: più attività imprenditoriali o creative autonome riversiamo su Internet e sui social e più è alto il rischio di incappare in una qualche forma di violazione del diritto d’autore.
Capita, poi, che alcuni individui o agenzie, trasformino la richiesta di risarcimento di un danno a fine ultimo della causa: la parola finale su una foto – il materiale “più litigato” nelle dispute sul diritto d’autore – utilizzata senza aver pagato nulla oppure una foto pubblicata da uno stock creative commons, come Flickr, dove l’utilizzo può essere gratuito ma a certe condizioni, può averla solo il giudice. E invece, centinaia di studi legali in giro per il mondo, hanno fiutato da tempo l’affare e si sono buttati a capofitto nel business del “copyright trolling” (già, questa pratica ha anche un nome) globale: terrorizzano (quasi sempre) pesci piccoli con minacciose mail-template dove richiedono risarcimenti di importi faraonici in tempi brevissimi per casi tutt’altro che chiari e definiti.
Chiariamoci: il lavoro di un fotografo, e di qualsiasi altro produttore di contenuti, va pagato. Foto con la “c cerchiata” di copyright non vanno usate senza il consenso dell’autore e questo è indiscutibile. Ma il concetto che utilizziamo di diritto d’autore ancora nel 2024 era stato inventato nel ‘700 e aveva il fine di evitare che l’industria si appropriasse del prodotto dell’ingegno del singolo. Per alcuni fotografi l’argomento è haram, con altri si può ragionare. Oggi, con la diffusione capillare dei supporti e l’amatorializzazione di tutto il processo produttivo dei contenuti, cosa sia davvero il copyright nessuno sa più dirlo. E questo, ormai, anche i giudici, nelle loro sentenze, lo tengono in considerazione.
Lo scivolone del dilettante e le limitate dimensioni di un’attività economica sono considerati fattori che possono ridimensionare certe richieste. Il tema è complesso ma un cosa è certa: il copyright trolling, nel frattempo, è diventato un vero e proprio lavoro a tempo pieno. La definizione venne coniata nel corso di una causa negli Usa, negli anni 10 del 2000, intentata da fotografo, un certo Oppenheimer, che ne avrebbe avviate oltre 200, con richieste tra i 100 e i 100mila dollari. Una fortuna.
Inoltre, il fenomeno è diffuso ma nessuno ne ha davvero cognizione della portata perché molte di queste liti finiscono con accordi extra giudiziali, una soluzione che conviene tanto al “troll” quanto allo studio che intenta la causa; avviare un procedimento legale, a parte il problema della giurisdizione, non è mai garanzia di successo. I giudici, infatti, tengono in considerazione molti fattori: quale diffusione ha il sito che ha utilizzato senza autorizzazione la foro? Quanto è costato realizzarla? Quanto esclusiva è? Quanto il fotografo ha perso dall’utilizzo non autorizzato? Quanto è indispensabile al contenuto pubblicato?
Risposte a queste domande, spesso, non sono così scontate. Anzi, spesso queste risposte non esistono E soprattutto, le risposte sono tutt’altro che scontate rispetto al concetto “classico” di diritto d’autore, che riguardava soprattutto rapporti tra operatori professionisti: oggi a utilizzare questi contenuti sono milioni di persone in maniera amatoriale o semi-amatoriale, spesso incolpevolmente ignare del fatto che “citare la fonte” non basta per essere a posto con la legge.