Ci vuole molta fantasia – o malafede, a seconda – per gioire in questo modo, il più infantile possibile, per il provvisorio disinnesco del lepenismo. Che nel ‘paese reale’ non retrocede di un millimetro, difatti il presunto sollievo è dovuto soltanto alle caratteristiche del congegno elettorale, col sistema maggioritario a doppio turno organizzato in collegi uninominali.

A una lettura un po’ meno fantasticante e faziosa della storia della Francia negli ultimi decenni, a saltare agli occhi, come peraltro chez nous, è la graduale, inarrestabile ascesa della destra radicale. Semplificando, prendiamo come indicatore il dato del Front National (dal 2018 Rassemblement National) al primo turno delle presidenziali, dove le tendenze politiche del voto popolare emergono nel modo più netto:

2007: il fondatore Jean-Marie Le Pen arriva quarto, si assesta sul 10,44% (3.834.530 voti) e non accede al secondo turno.
2012: passaggio del testimone alla figlia, Marine Le Pen, che arriva terza: 17,90% (6.421.426 voti) e niente accesso al secondo turno.
2017: Marine Le Pen stavolta arriva seconda col 21,30% (7.678.491 voti) e accede al secondo turno. Era già accaduto al padre, con gran scandalo, nel 2002, ma con ‘soli’ 4.804.713 suffragi e ottenendo poi al ballottaggio contro Chirac un inequivocabile ridimensionamento al 17,79% (mentre la figlia lo doppierà col 33,90).
2022: Marine Le Pen arriva di nuovo seconda, ma incrementa nuovamente i voti: 23,15% (8.133.828 voti), tendenza visibile anche considerando il secondo turno, dove il 33,90% del 2017 viene migliorato in un comunque eclatante 41,45%.

Tutti questi dati, politicamente rilevantissimi perché denotano un tasso di graduale e ininterrotta crescita, sortiscono effetti, per così dire, non sempre altrettanto evidenti solo grazie al sistema del doppio turno. Ma basta guardare al risultato del primo turno delle ultime europee, con La France Revient! lepenista al 31,37% e dunque divenuta intanto il primo partito nazionale, per capire quale sia la tendenza.

La ‘mucca in corridoio’ è diventata un mastodonte. Ora, se la maggioranza degli osservatori, anzitutto di casa nostra, non fossero impegnati a rimuovere la realtà anziché affrontarla, si chiederebbero perché si sia arrivati a questo punto, cioè a dover ammettere la ormai più che fondata ipotesi per cui la Francia si troverà presto alle prese con una Presidenza di estrema destra. Soprattutto, bisognerebbe chiedersi in che misura la facies mediatica dell’opinione pubblica soi-disant liberal-progressista abbia contribuito a questo sfacelo annunciato, continuando a voler vendere all’elettorato la favoletta ad uso esclusivo del mantenimento del potere sopraffattorio e profondamente antisociale delle attuali classi dominanti per cui: se non votate per gli esecutori dei nostri interessi arriva l’apocalisse.

Beh, col dissesto sociale in atto, il potere d’acquisto in calo, nessuna idea sostanziale per garantire un minimo di crescita e benessere futuro, che potrebbe coincidere solo con una radicale ridistribuzione del reddito insieme (ma, appunto, solo insieme) al progressivo allargamento dei diritti e a programmi tecnoscientifici davvero innovativi – e oltretutto con una situazione di guerra già de facto in atto, dove si parla con dogmatica leggerezza di milizie europee impegnate direttamente sul fronte ucraino e si procede ad una riconversione bellica di ampie fette dell’economia; ecco, alla luce di tutti questi e analoghi fattori l’apocalisse, per una buona e maggioritaria fetta di chi va a votare (e soprattutto di chi si è stancato di andarci), è già in ‘fase attuativa’ e più non può essere sventolata come minaccia.

In quest’Europa sonnambula che si avvia in corsia di accelerazione verso la catastrofe, non servono filastrocche consolatorie né cortigiani dello status quo. Sarebbe invece necessaria una drastica revisione del proprio modello politico, l’ammissione che l’attuale sciagurata situazione è da imputare anzitutto al declino della fu ‘socialdemocrazia’ europea divenuta, suggerisce un lungimirante anacronismo, un’izquierda invertebrada – da Blair a Macron, per intenderci, passando, da noi, per i vari Renzi Letta Gentiloni – la quale, accodatasi all’idea di progresso senza equità, dunque essenzialmente senza ripartizione democratica dei profitti, ha cercato di concepire lo sviluppo sotto l’implicito slogan: “Nothing for the people!”. Ebbene, questa farsa atroce ha smesso di funzionare. Così come – e non a caso in parallelo, perché si tratta, su altra casella dello scacchiere contemporaneo, di un effetto ottico dello stesso fenomeno – non regge più la canzone da organetto per la quale è necessario sostenere la guerra contro Mosca sennò i cosacchi verranno ad abbeverare i cavalli a San Pietro (solo ieri Molinari delirava: “Putin spregiudicato. Se non prende l’Europa con la politica, lo fa con le armi”).

Leggevo proprio in questi giorni e per tutt’altri intenti dagli Scritti dispersi di Alberto Savinio: “Ve lo dico in un orecchio: ai fiaschi delle varie conferenze dei tre o dei cinque grandi, io godo. Temo un’Europa fabbricata da questi ‘grandi’ non importa quanti siano, cioè a dire un’Europa che avrà la polpa di stoppa, i muscoli di spago e acqua di seltz nelle vene. Temo un’Europa in istato fantasma. Temo un fantasma del passato”. Specie se questo fantasma si ripresentasse nella nota forma dell’angelo della storia, che, le ali distese, fugge verso il futuro spinto dalla tempesta del ‘progresso’ ma contemplando, lo sguardo rivolto al passato, il cumulo di rovine della nostra avvenuta catastrofe.

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