Spiegare il delitto Ambrosoli con la vendetta, tanto feroce quanto inutile, di un Sindona ormai sconfitto sarebbe falso e depistante come spiegare le stragi del 1992 come mere vendette mafiose, oppure l’omicidio del giudice Occorsio come la vendetta dei neri romani, o l’omicidio del giudice Bruno Caccia come la vendetta degli ‘ndranghetisti radicati a Torino, insofferenti alla sua intransigenza.

Giorgio Ambrosoli fa parte di quella schiatta di eretici italiani colpevoli di una condotta specifica: aver anteposto il principio di legalità al “primato della politica”.

Cosa intendo qui per “primato della politica” ho avuto modo di argomentarlo recentemente proprio riflettendo sull’omicidio di Bruno Caccia, avvenuto il 26 giugno del 1983, in una Torino messa a soqquadro dallo scandalo Zampini, una sorta di prequel della più celebre “Tangentopoli” milanese, nella quale ebbe un ruolo decisivo l’eretico sindaco comunista Diego Novelli, che informato del giro di mazzette, senza esitazioni fece accompagnare il testimone in Procura con tanto di “scorta” perché nessuno provasse a fargli cambiare idea nel tragitto. L’allora ardimentoso leader socialista Bettino Craxi tuonò contro l’eretico Novelli, chiedendone la testa ed inviando a Torino, come esecutore testamentale il suo braccio destro prediletto: Giuliano Amato, il quale, fedele alla linea, redarguì l’eretico sindaco destinato ormai al patibolo col celebre argomento “questa cosa la dovevi gestire politicamente”. Cioè lasciando fuori la magistratura e cercando un accomodamento che facesse salvi gli equilibri politici. Questo intendo qui per “Primato della politica”.

Ambrosoli fa parte di questa schiatta di eretici innamorati del principio di legalità, che ha a sua volta come fondamento nient’altro che l’uguaglianza di fronte alla Legge, cioè la pretesa rivoluzionaria della uguale dignità di ogni essere umano. Perché libertà e diritti, per dirla alla Gino Strada, o sono per tutti o sono privilegi.
Al funerale di Giorgio Ambrosoli non si presentò nessun rappresentante del governo.

E se Ambrosoli fosse ucciso oggi, chi ci andrebbe? In un Paese nel quale il governo decide di dedicare l’aeroporto internazionale di Malpensa a Silvio Berlusconi e non a Giorgio Ambrosoli, la risposta rischia di essere tragicamente scontata.

Assistiamo basiti al trionfo di quel “Primato della politica” con l’addomesticamento del servizio pubblico radio televisivo che insabbia l’inchiesta di Fanpage, punisce la Bortone, apre con l’imperdibile festival di Pomezia la sera della sconfitta di Le Pen e con la delegittimazione radicale del giornalismo investigativo prima attraverso la presidente Colosimo (che mette sul banco degli “imputati” in Commissione Antimafia, il direttore di Domani Emiliano Fittipaldi) e poi attraverso la presidentissima Meloni che accusa Fanpage di sovversione antidemocratica (!). Il trionfo di quel “Primato della Politica” si avverte nelle parole di Sabino Cassese che suggerisce di tenere nel giusto conto l’investitura popolare che Toti incorpora, nel momento in cui il Tribunale valuta se debba o meno essere mantenuto ai domiciliari. Sta nella criminalizzazione del dissenso preteso dal ddl “Sicurezza” voluto da Nordio, sta nella cancellazione del reato di abuso d’ufficio, nel tentativo di limitare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura con la separazione delle carriere, nel tentativo di limitarne l’efficacia attraverso la mortificazione degli strumenti di investigazione più incisivi (come le intercettazioni. Salvo poi doversi rimangiare i dati falsi sul loro numero e sulla loro onerosità).

Il trionfo di questo “Primato della politica” si intravvede, inquietante, nella riforma costituzionale che dovrebbe archiviare il bilanciamento tra poteri repubblicani ad esclusivo vantaggio del “capo” eletto dai cittadini. Questo mefitico ed illiberale “Primato della politica” ebbe tra i suoi campioni, oltre a Craxi (ed accoliti), anche Giulio Andreotti il quale infatti intervistato nel 2010 di Ambrosoli disse che era uno “Che se la andava cercando”.

Nel 2010 ancora stava saldamente al timone dell’Italia Silvio Berlusconi e su una delle poltrone più importanti del suo ultimo governo, quella di sottosegretario all’Interno (quella che era stata di quell’altro impareggiabile “principe” della politica, Antonino D’Alì nel governo Berlusconi 2001-2006) stava Alfredo Mantovano che allora reagì immediatamente alle parole dell’ex-divo Giulio con una dichiarazione granitica (riportata da Il Giornale): “Giorgio Ambrosoli non se l’è ‘andata a cercare’. Ha ricevuto, senza sollecitarlo, un incarico professionale gravoso. Lo ha portato avanti basandosi solo sulla sua competenza e sul suo senso del dovere. Sorprende che 30 anni dopo il presidente Andreotti continui a mostrarsi più vicino a Sindona che all’avvocato Ambrosoli. Il quale, non essendosela ‘cercata’, certamente non ha ‘tirato a campare’, ma ha pagato il prezzo più alto”.

Ed oggi che pare aprirsi (con l’indagine a carico del giudice Natoli) addirittura il tentativo di riscrivere la storia della stessa Procura di Palermo che, guidata da Gian Carlo Caselli, per somma eresia pretese di sottoporre al principio di legalità anche il Divo (quando ancora tale era), cosa ha da dire il potente Alfredo Mantovano?

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