Il Tribunale del Riesame gela Giovanni Toti: il governatore è ancora pericoloso e deve restare ai domiciliari. Potrà ancora incontrare gli alleati, quando il tribunale glielo consentirà, per parlare tuttalpiù di massimi sistemi. Ma non può tornare a governare la Regione Liguria. Un conto infatti è l’attività squisitamente politica, un altro è “l’attività tecnico-amministrativa”: “È quest’ultima”, scrivono i giudici, “l’area in cui inerisce la persistente pericolosità di Toti, al quale – non a caso – viene contestato di avere scambiato utilità economiche con l’adozione di specifici provvedimenti amministrativi, e non certo di aver adottato scelte “politiche” nella sua veste di presidente della Regione”. In altre parole: “È nell’alveo dell’attività tecnico-amministrativa che persiste la concreta possibilità che l’indagato reiteri condotte di analogo disvalore confidando nel malinteso senso di “tutela del bene pubblico” cui ha ammesso di essersi ispirato all’epoca dei fatti nei rapporti che ha intrattenuto con Spinelli e Moncada e che, sulla scorta di un quadro gravemente indiziario nemmeno formalmente contestato, ad oggi risultano correttamente qualificati in termini di corruzione”.
Con queste parole – contenute in una durissima ordinanza di 33 pagine firmata dal collegio presieduto da Massimo Cusatti – il Riesame genovese frustra le ambizioni di Toti, che sognava di riacquistare la libertà e con essa l’
agibilità politica che gli era stata tolta
dopo l’arresto per le presunte mazzette incassate dall’imprenditore portuale Aldo Spinelli e dai rappresentanti del gruppo Esselunga. Un documento che rafforza in modo importante la posizione della Procura di Genova e respinge sostanzialmente tutte le argomentazioni presentate dal legale del governatore, Stefano Savi. Il primo caposaldo difensivo a essere demolito è proprio
l’interrogatorio reso ai pm con cui il politicososteneva di aver chiarito la propria posizione: “Il lungo verbale delle dichiarazioni rese da Toti” – scrive il riesame – è
infarcito di “
non ricordo“: un inciso che non brilla certo per chiarezza e trasparenza. D’altronde, non può farsi a meno di constatare che la scelta di Toti di sottoporsi a interrogatorio non sembra qualificabile, sul piano processuale, come una sorta di
beau geste inteso ad alleggerire il peso delle investigazioni ancora in atto a carico suo e dei suoi coindagati: sono sufficienti logica e buon senso, senza ricorrere alla giurisprudenza di legittimità, per affermare che il “peso”, a fini cautelari, delle ammissioni cui si sia determinato un indagato è per forza di cose
inversamente proporzionale a quello delle
acquisizioni probatorie allegate a suo carico nell’ordinanza cautelare”.
Toti aveva scelto di ricorrere solamente sulla sussistenza delle esigenze cautelari, senza entrare nel merito delle accuse che gli vengono mosse, una scelta che viene sottolineata in questa ordinanza. Fra le righe i giudici sembrano sottolineare la solidità dell’impianto accusatorio, soprattutto delle intercettazioni che per i pm dimostrano la contestualità fra i favori richiesti da Aldo Spinelli e dal rappresentante di Esselunga Francesco Moncada e i favori fatti o promessi da Toti: “Nel caso che ne occupa i pretesi accordi corruttivi – riguardo ai quali, per inciso, Toti non ha formalmente contestato la suisistenza dei gravi indizi a suo carico: e di ciò si deve tenere conto per “interpretare” le sue dichiarazioni – le acquisizioni probatorie non scaturiscono da soffiate di taluno o da dichiarazioni più o meno convergenti di coindagati in procedimento connesso o da persone informate sui fatti, della cui attendibilità intrinseca ed estrinseca ben potrebbe discettare con ogni legittimità, bensì da puntuali intercettazioni ambientali e telefoniche che hanno cristallizzato i contorni delle accuse al punto da essere evocate nella formulazione dei relativi capi. C’era ben poco da ammettere, insomma, di fronte a captazioni che restituiscono il quadro di un pubblico amministratore di rango apicale che, nel sollecitare costantemente finanziamenti per il proprio comitato elettorale, conversa amabilmente con gli stessi “finanziatori” di pratiche amministrative di loro interesse per le quali si impegna a “intervenire” presso le sedi competenti”.
Sul punto, prosegue il tribunale, la difesa di Toti “ha introdotto uno specioso “distinguo” tra ammissioni “in fatto” e “in diritto””. In termini semplici, l’argomentazione difensiva sarebbe che Toti avrebbe ammesso gli incontri e le interlocuzioni con i suoi finanziatori, rivendicando però il fatto che fosse tutto legale e di aver agito per il bene comune. “È quasi paradossale”, scrive il Riesame, “che la difesa rivendichi il diritto dell’indagato di ammettere solo “il fatto” e non “il diritto”, quasi che la qualificazione giuridica delle condotte integranti estremi di reato sia appannaggio dell’indagato. Si pensi, solo a titolo di esempio, a taluno che confessi di aver ricevuto un bene nella consapevolezza della relativa natura furtiva ma si ostini a escludere che tale condotta sia un furto“. L’ammissione dei fatti, ma con una diversa interpretazione, secondo i giudici svuoterebbe in definitiva di importanza l’interrogatorio reso da Toti, soprattutto nell’ottica della sussistenza delle esigenze cautelari: “Non può che prendersi atto che Toti non ha ammesso nulla di rilevante nell’economia del procedimento (…) L’assoluta irrilevanza del suo interrogatorio traspare a chiare lettere nel raffronto tra le giustificazioni elusive fornite alle domande più incisive del pm e quelle corroborate da evidenze desunte da conversazioni captate – e i tanti “non ricordo di cui è disseminato il relativo verbale – da un lato, e la memoria a sua firma depositata nella stessa giornata, dall’altro: nel corpo di quest’ultima Toti ha rivendicato la propria costante dedizione all’interesse pubblico”. Ed è proprio commentando la memoria difensiva del governatore che il tribunale riserva forse uno dei giudizi più duri: “L’indagato si è mosso con Spinelli e con Moncada non già come la figura ideale di pubblico amministratore che ha voluto delineare per sé nella memoria, ma quasi come l’amministratore di una società privata che con concordi con taluni azionisti “di riferimento” le linee strategiche della propria azione gestionale”.
Viene smantellata, infine, anche una delle principali argomentazioni dei difensori (soprattutto mediatici) di Toti: il fatto che la “registrazione formale” dei finanziamenti basti a qualificarli come legali e non frutto di corruzione. “In realtà”, scrive ancora il Riesame, “che pubblico ufficiale e amministrato non possanmo scambiarsi reciproche utilità è un postulato che sembra fondarsi sul diritto naturale, ancor prima che su quello positivo: se è pacifico che sollecitare finanziamenti a un movimento politico integri un comportamento del tutto lecito, è di palmare evidenza che concordarne l’erogazione in cambio di “favori” direttamente incidenti sulla posizione del finanziatore – come Toti è gravemente indiziato di avere fatto con le condotte lui preliminarmente contestate e che non risultano attinte, per una sua precisa scelta processuale, da esplicite censure difensive – integra una forma di corruzione in quanto trasforma ex se la lecita contribuzione allo svolgimento di un’attività politica, non a caso configurata come “liberale” e dunque necessariamente non vincolata nei fini, nel “prezzo” per l’esercizio di poteri e funzioni del pubblico ufficiale o per il compimento da parte di quest’ultimo di atti contrari ai suoi doveri d’ufficio. È altrettanto ovvio, di contro, che un soggetto determinatosi a finanziare un movimento politico si attenda da quest’ultimo un atteggiamento quanto meno consono alle proprie aspettative: ma un conto è “appoggiare” la strategia politica di un movimento sotto il profilo delle scelte generali con cui questo intenda perseguire finalità reputate conformi ai propri orientamenti ideologici e delle proprie attese, tutt’altro è “pagare” sotto forma di finanziamenti, pur formalmente leciti, i concretissimi favori materialmente concordati con il pubblico ufficiale destinatario di quelle erogazioni di denaro, quand’anche poi non distratte per il proprio tornaconto personale ma utilizzate a sostegno del medesimo politico di riferimento”.
La mancata comprensione dei reati corruttivi, e della distinzione tra una donazione legittima e una mazzetta (pur registrata), è usata dal tribunale come una delle argomentazioni che dimostrano la pericolosità di Toti e ne giustificano la misura cautelare: “E allora”, concludono i giudici”, se Toti ha dato prova di non essere stato a parte di questi principi, benchè pittusto lineari, per averli compresi, a quanto ha dichiarato, soltanto a seguito della vicenda cautelare che gli è occorsa, pare indubbio che ne persista la peculiare pericolosità riferita al rischio che reiteri la consumazione di delitti di analoga indole sulla scorta della medesima personalissima “convinzione” di agire per il bene comune”.