Media & Regime

Gabriele Invernizzi, morto un collega e amico. A L’Espresso per trent’anni, raccontò guerre e anni di Piombo

Sono sgomento, l’amico Gianfranco Modolo mi ha comunicato una brutta notizia: stanotte è morto a Bari Gabriele Invernizzi, nostro grande amico, talvolta compagno di bisbocce enogastronomiche e bravissimo collega che aveva lavorato per il settimanale comunista Vie Nuove, dove un giorno del 1971 si rifiutò di scrivere un pezzo sui Jumbo jet e fu licenziato: direi per sua fortuna, perché approdò all’Espresso e ci rimase 33 anni.

Lui scrisse nel 1970 (con la collaborazione di altri cronisti) un pamphlet che fece storia nel giornalismo italiano: La strage di Stato. Controinchiesta, incentrato sull’attentato di piazza Fontans a Milano (12 dicembre 1969), i depistaggi, le strane interferenze dei Servi, pubblicato da Samonà e Savelli: lui e gli altri coautori decisero collettivamente di restare anonimi. All’Espresso svolge moltissimi reportage di guerra (in Libano, nel Salvador, in Nicaragua, in Iran, Serbia, Ruanda, Congo, a tracolla portava sempre la sua Nikon F analogica, ma scriveva pure di femminismo, sport (gli piacevano molto i cavalli), persino di moda.

Era un tipo sarcastico, ironico, spesso irriverente, capace di affrontare qualsiasi argomento, perché era soprattutto una persona curiosa, mai sazia di sapere e di conoscere, non a caso per dodici anni l’Espresso lo manda a Parigi, come corrispondente dal 1986 al 1998 – spesso lo andavo a trovare, aveva un bell’appartamento con vista sulla Tour Eiffel – ed era anche un buon viveur, capace di farci ridere a crepapelle quando raccontava, con autoironìa alla Woody Allen, le sue numerose avventure amorose.

Da Parigi rientrò in Italia, per andare ad abitare in campagna, nel Varesotto, senza moglie ma con un figlio e due cavallini di razza araba che si chiamavano Djamal e Ephrat, in arabo vogliono dire Gioia e Terrore. Poco per volta, si immedesimò nel suo nuovo ruolo di allevatore. In fondo, molti degli argomenti di cui discutevamo davanti ad un buon rosso (rigorosamente piemontesi) avevano qualcosa in comune coi problemi delle scuderie: la merda. Quella per concimare. E quella della politica, della corruzione, di un premier bugiardo, dei depistaggi sulla P2, della connivenza mafia/istituzioni, dei leghismi, degli sdoganamenti nei confronti dei postfascisti.

Era un bravissimo inviato e cronista, ma anche un sodale che apprezzava il valore dell’amicizia, la consapevolezza di appartenere ad una generazione che era passata dalla memoria del Dopoguerra (avevamo negli occhi ancora le macerie dei bombardamenti, ci misero quindici anni per cancellare i segni più visibili della guerra), a quella del boom, e poi agli anni delle lotte di piazza, della repressione poliziesca, della contestazione, delle bugie sistematiche di Stato (e di governo); siamo stati testimoni degli anni di piombo, dei tentativi di golpe, del crollo del Muro di Berlino, delle guerre che hanno insanguinato i Balcani, il Medio Oriente; i genocidi in Africa, le manovre della Cia in Centramerica, la mitologia del made in Italy, della Milano da bere, l’avvento del malefico berlusconismo, sino a questi anni di melonismo, “non c’è mai limite al peggio”, noi giornalisti abbiamo il dovere – diceva Gabriele – di descriverlo senza timore né reverenza.

Caro Gabriele, contravvenendo al divieto del medico, stasera berrò un bicchiere di rosso brindando alla tua nuova vita impalpabile fisicamente ma eterna nei nostri pensieri di sopravvissuti. Sarà un’ottima occasione per riflettere sulla condizione di noi che invecchiamo. Ricordo un bel libro di Erri De Luca, Montedidio, cito a spanne: “Com’è essere vecchi?”, “E’ quando te ne parlano e che si scivola sulla parola ancora. Voi lavorate ancora? Voi campate ancora, voi fate ancora questa e quello?”. La vita, qualcuno la vede come un fiume. Altri, come un deserto. Alcuni, come una partita di scacchi con la morte (il Settimo sigillo di Ingmar Bergman…). Gabriele, non ci pensava. Tantomeno che fosse un gioco: perché c’è sempre la possibilità di perdere.

Quando arriverà il momento, mi disse una volta, non me ne importerà nulla se era scacco matto. Muoriamo ogni giorno, e noi anziani, più in fretta degli altri.