Ho fatto le elementari negli anni Cinquanta: c’erano i banchi di legno, con la ribalta e il calamaio, che il bidello ogni mattina riempiva di inchiostro. Avevamo le penne col pennino, e la carta assorbente. In prima riempivamo i quaderni di aste. Quando arrivarono le penne biro le maestre (e i maestri) e, alle medie, le professoresse, disapprovarono: rovinano la mano. Tutt’al più era permessa la stilografica. Nella fase di transizione, usavamo l’asta trasparente delle BIC come una cerbottana con cui sparavamo pezzetti di carta assorbente appallottolati e intinti nell’inchiostro.

Ho scritto la mia tesi di laurea con una vecchia Olivetti. Ero ossessionato dalla grafica, contavo le battute e gli spazi in modo da avere il testo allineato (ora si dice giustificato) a destra. Se sbagliavo una battuta riscrivevo la pagina. Dato che la tesi era in più copie usavo la carta carbone. Poi arrivarono le IBM a testina rotante, col correttore. I primi lavori scientifici li ho scritti con quella. Li mandavo a un collega inglese e lui me li correggeva. Tornavano, dopo settimane, pieni di correzioni rosse e blu. E dovevo riscrivere tutto.

In Usa, dove passai il 1983, vidi i primi processatori di parole, praticamente dei computer rudimentali che scrivevano testi (e forse era Olivetti!). E poi i computer. Non erano personali e c’era la coda per usarli. Le presentazioni si facevano con i lucidi, scritti col pennarello. Oppure con la fotocopiatrice. Ci misi un anno a costruire le presentazioni del mio primo corso universitario. Oggi si può fare quasi tutto con un cellulare.

Posso consultare la più grande biblioteca del mondo, quella online, se so come farlo. Se mi interessa un libro tecnico lo posso avere in qualche secondo, comprandolo online. Ma se in Italia è disponibile vado in libreria, mi piacciono i libri di carta. Rifiuto le piraterie. Ho scannerizzato la mia biblioteca sugli idrozoi, più di 14.000 titoli, ed è sempre con me, nel mio computer. Non sapete cosa sono gli idrozoi? Cercate col cellulare.

Vedo anche io i ragazzi che smanettano col cellulare per fare cose irrilevanti. Giocano. Ma acquisiscono capacità che, se sviluppate, permettono loro di avere accesso immediato a quasi tutta la conoscenza del mondo. Chi usa più le enciclopedie? Sono online, sempre aggiornate, come i vocabolari. ChatGPT traduce decentemente un testo in qualsiasi lingua. Basta fare copia e incolla. Da studente usavo le tavole dei logaritmi. Un giorno mia madre tornò a casa con un fustino di detersivo e, dentro, c’era una piccola calcolatrice che faceva le radici quadrate e i logaritmi. Mi direte: se finisci in un’isola deserta e devi calcolare un logaritmo, la calcolatrice magari non ce l’hai. Ma Robinson Crusoe aveva ben altri problemi…

Ora il ministro della Pubblica Istruzione e del Merito vieta l’uso dei cellulari a scuola. Mi capita spesso di parlare agli studenti. E tutti hanno il cellulare. Li sfido. Dico una castroneria e poi li esorto a cercare sui loro cellulari se ho detto una cosa giusta oppure no. Oppure dico una parola astrusa e, se nessuno ne conosce il significato, dico: bene, cercatela sul vostro cellulare (come ho appena fatto con gli idrozoi). Basta poco, e si accorgono che possono fare un milione di cose con quegli strumenti, inutile elencarle.

Prima dei temi, a scuola, mi facevano fare i pensierini. Ora li chiamiamo tweet. Anche se Twitter ora si chiama X. Insegnare a fare un cinguettio e ad esprimere un concetto con un numero limitato di caratteri è un magnifico esercizio di sintesi. I giovanissimi rimbecilliscono con i cellulari, lo so bene. Soprattutto i maschi, con videogiochi spesso violentissimi. Ma non è vietandoli a scuola che si risolve il problema. Il divieto, poi, aumenta il fascino della trasgressione. A scuola dovrebbero imparare ad usarli.

Il problema è che, tecnicamente (“come si fa”), sono più esperti dei loro docenti, anche se spesso non sanno “cosa” si può fare. Usare il loro “come” per insegnare nuovi “cosa” è la sfida della scuola, per generare consapevolezza della differenza tra il reale e il virtuale. Esistono applicazioni che ti dicono che albero stai guardando. Per usarle devi avere un albero da inquadrare. I ragazzi che tornano da scuola non conoscono i nomi degli alberi che incontrano lungo il loro cammino verso casa e, con rare eccezioni, non li sanno neppure i loro docenti. Con il cellulare possono colmare questa lacuna, e possono anche sapere se si tratta di alberi nostrani o esotici. Lo stesso si può fare con molti animali, con l’arte, con i testi.

Il cellulare è una chiave che apre molte porte, vietare quella chiave limita l’accesso a molte cose che, oggi, riempiono la nostra vita. Il cellulare è un bisturi. In mano a un serial killer è uno strumento di morte, in mano a un chirurgo salva la vita. Tra l’altro, a ben cercare, in rete si trova anche come fare un’operazione chirurgica. Lo so, si trova anche come fare una bomba. E si trovano anche i film porno. Inutile vietare queste cose, vanno insegnate! Se non le imparano a scuola le imparano dai compagni e dalle compagne più grandi e, quasi invariabilmente, ne faranno cattivo uso.

Il problema dei cellulari c’è, ma siamo sicuri che la soluzione sia vietarli a scuola? Lo scollamento tra la scuola e la vita vera non potrebbe essere maggiore.

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