di Carlo Tritto*
Il nuovo Pniec, Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, è stato inviato qualche giorno fa dal governo Meloni alla Commissione Europea. Si tratta del documento programmatico più importante per accompagnare il Paese e il suo tessuto industriale verso l’economia decarbonizzata di domani.
Analizzando le politiche per i trasporti, il cui Piano fallisce di ridurre significativamente le emissioni di questo settore, l’unico con emissioni crescenti rispetto al 1990 e che, oggi, pesa per oltre 100 milioni di tonnellate di CO2. Sebbene vi siano alcune positive misure per accelerare l’elettrificazione del trasporto stradale, come ad esempio l’obiettivo di 4,3 milioni di veicoli elettrici puri, l’introduzione di un meccanismo di credito per remunerare l’elettricità verde ricaricata dai veicoli elettrici e una timida rimodulazione della fiscalità dell’auto in ottica green, l’approccio generale adottato dal governo appare confuso e poco efficace nel ridurre le emissioni.
Ci si appella troppo alla neutralità tecnologica che, in un contesto di limitatezza di risorse (rinnovabili e non), si traduce nello sprecare le risorse energetiche a disposizione.
L’elettrificazione del trasporto stradale, oltre a ridurre sensibilmente l’emissione di inquinanti locali tossici come NOx e PM, è l’unica soluzione di Improve tecnologico capace di ridurre il fabbisogno di energia di un settore che oggi impiega circa 33 milioni di tonnellate equivalente di petrolio. Deve essere dunque l’approccio dell’efficienza energetica a dettare la via da seguire. Questo permetterebbe di ridurre il consumo, e dunque l’importazione, di fonti fossili, perseguendo sia una strategia di indipendenza energetica che una di riduzione delle emissioni dei trasporti su strada che, dati Ispra alla mano, rappresentano il 90% di quelli dei trasporti.
Nel Piano, per contro, si pianifica di sviluppare estensivamente la filiera dei biocarburanti: quelli derivati da colture (come il ricino coltivato in Africa), quelli avanzati (come la Frazione Organica dei Rifiuti Urbani) e di scarto (come UCO e grassi animali). Oltre ai problemi e ai limiti acclarati per questi vettori – cioè la competizione con le filiere alimentari e un impiego sub-ottimale del suolo per quelli coltivati, la scarsità delle materie prime avanzate e le possibili frodi di etichettatura per quelli di scarto (UCO e grassi animali) – il problema è l’uso finale che se ne prevede. Il Piano, invece di dare priorità al loro uso nei settori hard to abate dei trasporti, come il settore aereo di lunga percorrenza – dove l’elettrificazione difficilmente sarà una soluzione disponibile nel breve termine – ne prevede l’uso in miscelazione con i fossili (per la felicità dei petrolieri) per la “decarbonizzazione” del trasporto stradale.
Anche per quanto concerne l’idrogeno verde e i carburanti rinnovabili di origine non biologica (RFNBO) da esso derivato notiamo una programmazione inefficiente. Questi carburanti saranno chiave per decarbonizzare i settori hard to abate dei trasporti e, infatti, le norme Ue ne premiano il consumo nei settori dell’aviazione e del marittimo, assegnando dei moltiplicatori che permettono di massimizzare il loro contributo nel raggiungimento dei target.
In un’economia in rapida evoluzione, mantenere competitiva la propria industria significa accompagnarla verso le opportunità del futuro: in tal senso, sarebbe opportuno creare un cluster industriale per la produzione di idrogeno verde per i settori dei trasporti hard to abate, che avvii – già da oggi – la filiera per la produzione di tali vettori, regolamenti il settore per fornire sufficienti garanzie alla domanda e all’offerta, delineando chiari casi d’uso. Nel Pniec, invece, si legge che l’idrogeno e i carburanti da esso prodotti “sarà fornito attraverso l’uso in raffineria oppure l’impiego diretto nelle auto, autobus, trasporto pesante e treni a idrogeno (per alcune tratte non elettrificate) e, nel medio-lungo periodo, nel trasporto marino e aereo o attraverso l’immissione nella rete del metano anche per uso trasporti”. Il loro impiego nei trasporti hard to abate – con meno del 10% – è quindi solo marginale.
“Neutralità tecnologica” è una formula altisonante, assai cara al nostro governo. Il suo portato pratico, almeno nel nostro Paese, equivale apparentemente all’impiego di ogni possibile risorsa energetica sostenibile (o presunta tale) più o meno in ogni settore, in maniera apparentemente randomica (al più con qualche vincolo dettato dai quantitativi disponibili) e a dispetto dell’efficienza energetica e della misurazione delle emissioni climalteranti. Un approccio del genere ha almeno due grandi costi.
Il primo è industriale e occupazionale: oggi la nascente industria dei carburanti verdi per i trasporti hard to abate offre molte opportunità di sviluppo. Si stima che questa filiera di produzione, per il solo trasporto marittimo, genererà fino a 4 milioni di posti di lavoro a livello globale. Molteplici saranno le opportunità legate alla produzione di SAF di origine non biologica (e-kerosene). Tuttavia, nei report pubblicati recentemente da Transport & Environment che mappano i progetti di produzione di tali vettori per i settori dell’aviazione e del marittimo, non ci sono progetti italiani.
Il secondo, non per importanza, è climatico ed economico: con questa allocazione delle risorse energetiche, il Piano fallisce nel raggiungere il target di riduzione delle emissioni dei settori ESR, con un conseguente deficit emissivo di 89 Mton di CO2 equivalenti per cui il Paese dovrà comprare circa 120 milioni di crediti di emissioni che – ad un costo stimato di 129 a credito (stima Bloomberg) – significherà impegnare circa 15,5 miliardi di euro.
Non sarebbe meglio allocare le risorse energetiche in modo più efficiente, generare maggiori riduzioni delle emissioni, e impiegare i miliardi di euro nell’accompagnare cittadini e aziende nella transizione, più che pagare “multe” per la mancanza di ambizione?
*Sustainable Fuels Manager di Transport & Environment Italia