di Roman Ballandras*
Per comprendere lo stato in cui ci troviamo oggi in Francia, dobbiamo guardare indietro, a un mese che ha avuto l’intensità politica di un anno. Oggi mi sento come in una camera di decompressione dopo essere stato coinvolto nella densità e nel tumulto di una guerra lampo.
Tutto è iniziato quando pensavamo fosse finita, domenica 9 giugno. La sera dei risultati delle elezioni europee, i nostri volti, abbattuti dalla schiacciante vittoria del Rassemblement Nazional (RN), hanno visto i loro occhi spalancarsi ancora di più quando Emmanuel Macron ha annunciato lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale. È il caos. Ricordo di aver sentito quasi ovunque che Macron era impazzito, anche da alcuni esponenti politici (“Abbiamo un pazzo come capo dello Stato”, ha dichiarato la sera stessa il regista François Ruffin). Lo scioglimento in quel momento, l’organizzazione delle elezioni legislative in meno di un mese, voleva dire consegnare a RN la maggioranza alla Camera. Mi dico che Macron conta infatti doppiamente sulla sinistra: sia per la sua disorganizzazione – che non avrebbe minacciato troppo il campo centrista – sia per il suo rigore politico, nella convinzione che avrebbe preferito eleggere deputati macroniani piuttosto che lepenisti. Nella mia testa, come in quella di tutti i cittadini francesi di sinistra, il pensiero è stato essere all’altezza in tempi record.
Contro ogni aspettativa, le cose sono andate come un orologio. La sera del 9 giugno, Sandrine Rousseau, deputata ecologista, invoca su TF1 l’unità della sinistra. Nella società civile, tra i giovani, vogliamo la stessa cosa, manifestiamo in Place de la République contro l’estrema destra, facciamo pressione sui nostri leader da ogni parte, anche tra gli streamer su Twitch (“Leader politici di sinistra, non diventate l’ostacolo all’ideologia che volete far trionfare […] i leader politici non devono essere stupidi” grida ad esempio Clément Viktorovitch, streamer politico, in diretta davanti a decine di migliaia di persone). E funziona. In una notte insonne, i sostenitori dei quattro maggiori partiti di sinistra stringono un’alleanza d’eccezione e il 10 giugno viene annunciata la creazione di un Nuovo Fronte Popolare, che riunisce il Partito Socialista, gli Ecologisti, il Partito Comunista e La France Insoumise. La sera del 10 siamo contenti, ci diciamo che forse non vedremo il RN al potere, dopotutto. Non osiamo sperare nella vittoria, ma almeno speriamo nella loro sconfitta.
La settimana successiva, l’alleanza di sinistra si dimostra esemplare, mentre il circo lo offre, per una volta, la destra repubblicana. Divisa tra comizi a Macron e Le Pen, il picco arriva quando Éric Ciotti, presidente del Partito repubblicano, si barrica nel suo ufficio e subisce la rivolta dei suoi collaboratori dopo aver aperto ad un accordo con l’estrema destra.
A sinistra, guardiamo da lontano, siamo contenti che per una volta l’attenzione dei media non sia su di noi, siamo saggi. Nonostante tutto, con l’avvicinarsi del primo round, torna a farsi sentire il cattivo odore della peste nera. I sondaggi danno il RN in testa. Vediamo Jordan Bardella, un po’ ovunque sui palchi, dibattere come se tutti sapessero che sarebbe diventato Primo Ministro. Mi colpisce il carattere del tutto irrazionale di questa campagna in cui Bardella una sera si umilia in un dibattito contro Gabriel Attal (attuale Primo Ministro) e Manuel Bompard (LFI, rappresentante del Nuovo Fronte Popolare) affermando delle assurdità, ma fa guadagnare due punti nei sondaggi al suo partito.
Mi dico che alla fine, nonostante tutto il buon senso, anche se il Fronte Popolare è l’unico ad avere un programma serio e calcolato, rompendo con sette anni di macronismo, perderà contro un partito la cui unica attrazione per i francesi è il suo razzismo. La sera del primo turno questa impressione è confermata. Vedo in tv gli attivisti lepenisti festeggiare un primo successo, e i dirigenti della sinistra congratularsi con se stessi per un risultato incoraggiante, ma non sufficiente. Usciamo di nuovo, Place de la République, cantando “siamo tutti antifascisti”.
Nella mia circoscrizione, al primo posto c’è Rachel Keke, deputata uscente della France Insoumise, seguita da Vincent Jeanbrun, deputato repubblicano, sostenuto dai macroniani. È per lei che voglio lottare personalmente, penso che lei, tra tanti altri, debba avere il suo posto nell’Assemblea in cui è stata seduta solo per due anni, lei che, ex cameriera, donna franco-ivoriana ha guidato e vinto lo sciopero contro l’hotel Ibis per cui lavorava.
Ci mobilitiamo, andiamo porta a porta con gli amici parigini i cui deputati sono stati eletti al primo turno. Ci incontriamo tutti a Haÿ-les-Roses, Rachel Keke sale su una panchina, mobilita le truppe – più numerose del previsto, solo giovani -, poi è Sébastien Delogu, già rieletto deputato della LFI, a prendere la parola e a invitarci a distribuire volantini. Per strada, le due figure politiche vengono costantemente fermate, Delogu è l’idolo dei giovani per la sua presenza capillare nei reel di TikTok, e Keke porta con sé una speranza di rappresentanza in questi quartieri popolari. Andando di porta in porta incontro tante persone già impegnate nella nostra causa, giovani, anche bambini che conoscono Rachel, che ci ringraziano e ci incoraggiano. Il nostro obiettivo è soprattutto evitare l’astensione, per garantire che non manchi un solo voto.
La sera stessa, nella stessa città, quella di cui è sindaco, ma in un quartiere più chic, Vincent Jeanbrun organizza un “Raduno per la Repubblica”, qualunque cosa significhi, nel banale tentativo di registrare i suoi avversari politici della France Insoumise fuori dall’“arco repubblicano”. Come se ci impegnassimo in un’attività antirepubblicana, all’ombra della periferia, noi che vogliamo onorare la Repubblica eleggendo come parlamentare una donna che ha vissuto la vita dei più poveri del Paese, colei che ha fatto arrossire di vergogna l’Assemblea, quando – nel luglio 2022, durante i dibattiti sul potere d’acquisto – ha rimproverato ai deputati di destra: “Chi in questa sala ha preso 800, 1000 euro? […] 800 euro al mese, non al giorno! Nessuno! Nessuno sa cosa vuol dire”. Nel corso della campagna, la sinistra dovrà fare i conti con le calunnie degli avversari e di parte dei media, affrontare l’inversione orwelliana per cui i leader di un partito fondato dalle Waffen SS accusano la sinistra di antisemitismo. Far fronte al rifiuto totale degli estremi da parte del blocco centrale, come se volere il salario minimo di 1.600 euro sia estremo quanto classificare i cittadini in base alla loro origine. E noi attivisti, spesso giovani, li abbiamo lasciati parlare, affrontando questa sporcizia sulla strada per poi darci appuntamento alle urne.
La settimana tra i due turni per me è quella della speranza quando sono sul campo – trasportato dall’entusiasmo contagioso degli attivisti e dai sorrisi incoraggianti dei simpatizzanti – così come quella della disillusione quando in tv vedo per esempio la giornalista della BFM fare gli indovinelli, tutta sorrisi, a Jordan Bardella, mentre cerca di estorcergli i nomi dei possibili futuri ministri (il 4 luglio, in Face à BFM).
La sera dei risultati del secondo turno, mi ritrovo con gli amici, su sollecitazione di uno di loro che, qualche giorno prima, mi aveva detto, pieno di angoscia: “Preferisco non essere solo domenica sera”. Vogliamo restare uniti, personalmente non ho mai votato per il vincitore di un’elezione, mi rifiuto di avere speranza, voglio solo che evitiamo il peggio. Siamo seduti tutti e quattro sulle rive della Senna e alle 19,30 la tensione sale. Ricevo anticipatamente da un’amica giornalista una prima stima dei risultati che già circola: colloca il Fronte popolare al primo posto, la coalizione Ensemble di Macron al secondo e il Rassemblement National solo al terzo. Mi rifiuto di crederci, troppo spaventato dalle false speranze; tiro un sospiro di sollievo solo quando sullo schermo del mio telefono, al quale siamo attaccati, appare l’infografica ufficiale di France 2.
A quel punto gridiamo di gioia, ho l’impressione che tutta Parigi gridi. Lungo le banchine si sparge la bella notizia, la gente finalmente esulta: evitiamo il fascismo e potremo attuare il programma del Fronte Popolare. Il mio telefono è subito inondato di messaggi di sollievo, speranza e congratulazioni da parte dei miei compagni. Ci sarà di nuovo un grande raduno in Place de la République, ma questa volta, con i miei amici, berremo al bar per festeggiare. Ci rendiamo conto che nessuno aveva osato crederci e per questo la vittoria è ancora più bella. Il Nuovo Fronte Popolare ha fatto onore al suo nome storico e ha replicato l’impresa del 1936 contro gli eredi delle leghe fasciste. Per tutta la serata penso a Rachel Keke e controllo freneticamente i risultati della sua corsa sul mio telefono. Alle 22:40 la doccia fredda: ha perso per 500 voti. Per me è una serata di vittoria amara, ma una vittoria, celebrata dai rappresentanti della sinistra, e nonostante tutte le previsioni dei media.
Mentre scrivo vediamo la fine del tunnel, ma sono consapevole della fragilità della nostra posizione. La vittoria contro l’estrema destra è solo una tregua, e il RN resta in agguato per le Presidenziali del 2027. Macron, che sembrava pronto a nominare Bardella primo ministro, è riluttante a riconoscere la vittoria del Fronte Popolare e sostiene ancora Attal. I media già parlano di una sinistra divisa, con presunte difficoltà a trovare un candidato primo ministro e diversi dissensi interni. Noi attivisti, giovani di Francia, che abbiamo realizzato l’impossibile portando la sinistra in testa in tre settimane, vorremmo ora assaporare la vittoria e vedere finalmente attuato un programma di rottura. Se domenica sera è stato un grande sollievo, lo è stato per poco: siamo già ripiombati nella paura delle delusioni e dei tradimenti.
Il Nuovo fronte popolare è pronto a governare, ma Macron non sembra pronto ad applicare la Costituzione con la stessa diligenza con cui l’avrebbe fatto per il Rassemblement National.
* Ventidue anni, studente in Letteratura comparata all’università Sorbona di Parigi