“L’orologio accanto al letto segnava le 6 e 33. Perché non poteva dormire fino a mezzogiorno come aveva fatto per quasi tutta la vita? Se ci fosse riuscito, metà della giornata sarebbe già passata quando avrebbe riaperto gli occhi. Ma alla sua età faceva fatica a dormire. Dormiva a singhiozzo e si svegliava presto, esausto ma sveglio. Tutti dicevano che più si va avanti con l’età più è facile svegliarsi, ma non era il suo caso. Ogni mattina era una lotta anche solo mettere i piedi a terra. In calzettoni di lana e mutande lunghe, si mise una tuta, un paio di scarpe da ginnastica e un giaccone di tela e uscì con una cassetta di plastica.”
Il sessantacinquenne Al Ward vive solo, con i suoi mille ricordi, nello sghimbescio capanno del saggiatore di una concessione mineraria lasciatagli in eredità da un suo prozio. Mangia in modo compulsivo zuppe in scatola Campbell’s, beve litri di caffè istantaneo e riflette sulla sua vita da musicista e sulle suggestioni che gli hanno permesso di scrivere centinaia di canzoni. Una mattina, fuori dal suo rifugio, appare un vecchio cavallo, derelitto e accecato da una malattia agli occhi, incapace di difendersi dagli attacchi dei coyote. A quasi duemila metri di altitudine, a cinquanta miglia dal ranch più vicino, tormentato dall’alcolismo e da frequenti attacchi d’ansia, Al deve decidere cosa fare per se stesso e per il cavallo. Il punto di vista psicologico del protagonista lascia spazio a continue disertazioni. Rievocazioni di un tempo fatto di bar, casinò, tour logoranti, band più o meno gloriose, occasioni mancate e canzoni che a volte sono diventate successi che hanno sfiorato il mainstream, lasciando comunque lui, il compositore, nell’anonimato.
Il Cavallo è una storia poetica e commovente su cosa significa dedicarsi alla propria creatività, nonostante tutto, di sopravvivenza e dignità. Una parabola sulla musica e sull’invecchiare soli. Un romanzo con un autentico spirito romitico.
“I peli delle braccia si rizzano, non mostra alcuna traccia della lebbra; respira aria, il sole brucia, ma sente freddo. Un filo di sabbia rossa si alza dal suolo verso il cielo. Si guarda indietro e vede le sue stesse orme, impronte profonde e lontane che disegnano una curva ascendente verso la sponda della valle, per culminare infine nel luogo in cui si trova. Sta camminando da prima che sia cominciato il sogno, sta venendo dal bordo di un precipizio in cui è già stato, quello in cui ha incontrato il fossile di un uomo. Si ferma a pensare, a pensare a ciò che il suo corpo fa quando lui è assente.”
Un cavaliere solitario senza nome vaga con il suo cavallo attraverso deserti selvaggi in cerca di vendetta e redenzione. Con sé porta un fucile, semi di zucca e un recipiente di cuoio pieno d’acqua. Ha incontri fortuiti con una spietata setta di invasati vestiti di rosso, con creature affamate e violentate dal destino, con lebbrosi, con banditi impolverati, triviali e dal gustoso sapore di uno spaghetti western muto. Il cavaliere non ha una direzione fissa, se non quella di raggiungere un orizzonte impalpabile e poter dormire all’addiaccio. Il suo viaggio si riempie di simboli misteriosi e intraducibili. Qualcosa sta accadendo tra le montagne, le praterie e le gole dei canyon, qualcosa di malvagio e oscuro, ma il cavaliere non sa cosa e non gli rimane che annotare cose su un taccuino e tentare di sopravvivere al destino che incombe.
Con Dio dorme nella pietra, l’autore americano-argentino (con un pizzico di Cile), si posiziona sulla scia de Meridiano di sangue, di Cormac McCarthy, de Il giardino di marmo, di Alex Taylor e Figli della polvere, di Colin Winnette, mantenendo un tratto originale, accattivante e unico nella capacità di dare dignità alla solitudine grazie a un clima costantemente allucinato e ipnotico.