L’obiettivo è chiaro ormai da tempo. Il modo per raggiungerlo molto meno. Perché iniettare del talento fresco in una Nazionale che ha mostrato limiti enormi è un’operazione lunga e complessa, a volte disperata. È dal 24 giugno del 2014, il giorno dell’ultima, disastrosa, partita degli azzurri ai Mondiali, che si ripete sempre la stessa frase: “L’Italia deve ripartire dai giovani“. Qualunque cosa voglia dire davvero. È stato così dopo l’eliminazione ai quarti di finale per mano della Germania a Euro 2016. È stato così dopo la mancata qualificazione al Mondiale del 2018. È stato così dopo il mancato approdo alla Coppa del Mondo in Qatar del 2022. Ed è stato così anche dopo l’imbarazzante prestazione mostrata contro la Svizzera un paio di settimane fa, in una partita che ha assunto le sembianze più di una Caporetto che di una semplice sconfitta.
Il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina è stato chiaro. “Ci vuole pazienza – ha detto – dobbiamo attuare una politica di valorizzazione del talento”. E ancora: “Purtroppo la ricerca continua del risultato sportivo a tutti i costi e in breve tempo non ti permette di avere pazienza sulla valorizzazione di questi ragazzi. Dobbiamo allargare la base dei selezionabili”. Il primo problema è proprio questo: capire da chi è formata la platea dei giocatori convocabili per la Nazionale. Un aiuto importante può venire dal ReportCalcio, la radiografia del pallone italiano che ogni anno la Figc redige insieme ad Arel e PwC. L’ultimo studio, pubblicato nel 2023 con i dati del 2021/2022, usa toni piuttosto enfatici. Il numero di calciatori tesserati è cresciuto del 29.4% rispetto all’anno precedente, tornando di fatto ai numeri pre-Covid. La variazione è sensibile: dagli 840.054 giocatori del 2020-2021 sì è passati a oltre 1 milione di tesserati dell’anno successo.
Un successo che, tuttavia, assume un valore molto diverso se letto nel lungo periodo. A partire dal 2009/2010, ossia l’anno in cui l’Italia ha chiuso il Mondiale sudafricano all’ultimo posto in un girone con Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda, l’emorragia è stata costante. E non c’è settore che si salvi. Le società professionistiche italiane sono passate da 132 a 98, quelle dilettantistiche da 11.642 a 8.796, mentre quelle del Settore Giovanile e Scolastico sono scese da 2.916 a 2.486. Stesso discorso per le “squadre” che partecipano a campionati e tornei: se il numero di quelle professionistiche è rimasto invariato negli ultimi 12 anni (484 erano e 484 sono), le squadre dilettantistiche sono diminuite sensibilmente, passando da 17mila a 13 mila, così come quelle del Settore Giovanile e Scolastico, passate da 52mila a 45 mila. La tendenza è chiara: meno società, meno squadre, meno giocatori.
Il numero dei tesserati è infatti diminuito: da 1.108.479 calciatori del 2010 si è passati a 1.049.060, in pratica 59mila calciatori in meno. E se il saldo è di un rosso meno intenso del previsto il merito è del Settore Giovanile e Scolastico, l’unico in crescita, passato da 619mila a 672mila iscritti. Per il resto, però, il buio comincia ad assomigliare alla tenebra: -416 professionisti, -637 Giovani di serie, -111mila dilettanti. Cifre che contribuiscono a tracciare uno scenario non esattamente positivo. È lo stesso ReportCalcio, infatti, a sottolineare il ruolo fondamentale del calcio dilettantistico con quella che viene definita la “creazione del talento”, descrivendolo come “un settore di rilevanza strategica per lo sviluppo e l’arricchimento del potenziale strategico dei migliori giovani calciatori“.
Basti pensare che fra il 2020 e il 2022 ben 605 giocatori formati da società di calcio giovanile e dilettantistico sono diventati professionisti (35 si sono trasferiti in club con la prima squadra partecipante alla Serie A, 65 in Serie B e 503 in C). È un problema cogente e poco affrontato. Perché spesso il dibattito sullo sviluppo del pallone tricolore si va a impantanare sulla semplice divisione matematica fra quanti giocatori italiani e stranieri compongono le rose (solo l’1.9% delle squadre di Serie A è composto da italiani under-21, mentre il 2.5 % è formato da under-21 stranieri), non su un possibile gap di talento fra le due componenti. La contrazione del movimento calcistico italiano negli ultimi anni appare chiara. Sia per risultati, sia per mole di ragazzi che si avvicinano a questo sport. Eppure c’è un dato che ha dell’incredibile. Perché gli unici numeri in crescita sono quelli degli allenatori, passati da 22.310 a 37.367, e soprattutto quelli dei dirigenti, che sono quasi triplicati: dai 108 mila del 2010 si è passati ai 274mila del 2022. In pratica è come se ognuna delle 11380 società “superstiti” avesse 20 dirigenti. E se da una parte l’impiego di nuove professionalità capaci di guidare più moderna ogni aspetto dell’attività sportiva è senza dubbio un bene, dall’altro il calcio italiano appare come uno sport con sempre meno calciatori e sempre più dirigenti.