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La guerra ha ucciso la libertà di pensiero. Chi dissente è isolato (pure Orban)

Che l’Europa stia andando verso una terza carneficina mondiale è abbastanza probabile. Si tratta di capire solo quanto estesa sarà la guerra, e se distruggerà i paesi europei oppure si estenderà a tutto il globo. L’ideale sarebbe naturalmente se i mercanti di armi, i lobbisti e i politici impegnati nell’incrementare la spesa militare fossero spediti subito in prima linea, e si eliminassero tra loro. Purtroppo a pagare il conto sono i poveracci mandati al fronte dalle varie potenze che si fronteggiano sul campo e il processo di escalation non da segni di fermarsi. Ma anche se per un qualche miracolo la guerra non esondasse dai confini ucraini, un enorme disastro ormai si è compiuto.

Come è sempre più evidente, il linguaggio bellico dominante di cui media di proprietà di grandi gruppi industriali son la gran cassa, non prevede sconti, ne fa prigionieri. Si era iniziato con la campagna contro i grandi scrittori russi con strafalcioni storici degno di un dilettante come quando a essere accusato di russofilia era stato il maestro Fëdor Dostoevskij, salito nel 1849 sul patibolo per avere cospirato contro le autorità russe e di seguito deportato in Siberia nella fortezza di Omsk. La successione di eventi e episodi degna di un romanzo distopico non si è più fermata e chiunque abbia cercato di portare argomenti a favore di una interpretazione meno settaria del conflitto ucraino è stato isolato e messo alla gogna dai media dominanti.

Negli ultimi giorni siano arrivati all’apoteosi e si è parlato di cordone sanitario per isolare Orban, un vecchio conservatore poco liberale che in veste di presidente di turno della Unione Europea ha osato recarsi a Mosca e Pechino per verificare la possibilità di un negoziato con la Russia. Il termine ‘cordone sanitario’ in Politologia si riferisce al rifiuto di cooperare con uno o più determinati soggetti politici a causa di un’ideologia percepita come inaccettabile o estremista. In Medicina, da cui trae origine, il concetto ha tuttavia un significato più brutale e rimanda alla necessità di isolare una comunità o una popolazione colpita da malattie infettive mortali. Ora, cosa ci sia di infettivo e mortale a parlare di pace con chi ha dichiarato una guerra, non è sinceramente facile capire eventualmente un cordone sanitario dovrebbe essere steso per isolare chi si rifiuta di discutere della fine di un conflitto, e non viceversa.

E’ fondamentale essere però consapevoli che l’idea che sia moralmente sanzionabile il pensare in modo diverso dai dogmi dominanti rappresenta una violazione eccezionale dei principi cardine delle società democratiche. Come in molti altri paesi anche in Italia la libertà di pensiero è una pietra angolare dello stato di diritto e la stessa Corte costituzionale nella famosa sentenza numero 9 del 1965 afferma che essa “è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle […] che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale” (sent. n. 9/1965).

La libertà di pensiero non significa che ciascuno può dire ciò che vuole. Per esempio l’art. 21 stabilisce che un limite alla libertà di espressione nel cosiddetto buon costume. Il buon costume si riferisce alle abitudini sessuali e alla morale in un determinato periodo storico. Un altro limite alla libertà di pensiero è la diffamazione che si sostanzia quando qualcuno offende la reputazione altrui. Sostenere una posizione filopacifista rispetto alla guerra in Ucraina non risulta però essere né una violazione del buon costume, né un’offesa alla reputazione di qualcuno.

Chi argomenta che il conflitto è anche l’esito di scontri geopolitici e di interessi di lobbies e affari non viola in alcun modo i limiti imposti dalla Costituzione alla libertà di espressione. Eventualmente alcune argomentazioni potrebbero rivelarsi deboli o fallaci come in qualsiasi dibattito che si rispetti, ma la forza della democrazia sta proprio nella capacità di costruire discussioni pubbliche in cui le argomentazioni non sono univoche ma dialogano tra loro, alle volte si scontrano e sempre dovrebbero consentire ai cittadini di comprendere i punti di forza e debolezza delle diverse posizioni.

Ora dopo due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina e dieci dopo il colpo di Stato di Maidan non è solo l’Orologio dell’Apocalisse, ideato nel 1947 dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago per misurare il pericolo della fine del mondo, a segnare settimana dopo settimana lo scorrere degli ultimi secondi prima della catastrofe nucleare, ma è anche lo stesso principio fondante della democrazia a essere quotidianamente oltraggiato e massacrato. Fa specie che il primo servitore dello Stato, il vecchio presidente Mattarella non ricordi con vigore morale che li è proprio il rischio che comporta per una democrazia il drammatico impoverimento del dibattito pubblico.

Quando in un paese addirittura il pensiero secondo cui anche Putin potrebbe avere qualche ragione, oppure che è meglio una buona pace a una terribile guerra, diventa difficile da esprimere e si deve avere paura di esporre un pensiero difforme a quello dominante, è inevitabile dovere ammettere che la lancetta della storia è già andata indietro a un punto di non ritorno.

Non sappiamo se tra qualche mese o anno l’umanità tornerà all’età della pietra o meno, sappiamo però di per certo che oggi nel mese di luglio 2024 la grande vittima della guerra giace già sotto mezzo metro di terra e che il cadavere che si sta sotterrando è la base portante della democrazia. Questo dovrebbe fare riflettere molti sulla follia dell’attuale conflitto e sulla stupidità di coloro che vedono nel riarmo e nella battaglia l’unica strada per la ricerca della pace.