La lattina gialla delle Slazenger quando si apre fa lo stesso suono di una bibita gassata. La giudice di linea controlla le palline da tennis una ad una, le stringe nel palmo destro esercitando tutta la pressione di cui è capace e getta freneticamente il polso verso l’alto, con un movimento buffo e ipnotico, per verificare che siano perfettamente gonfie. Ha smesso di piovere da poco e tutto è perfetto sul campo numero 14 di Wimbledon, una delle pietruzze infilate all’ombra dei due grandi diamanti, il Centrale e il Numero 1. Siamo in terza fila (su tre), a un palmo di naso dalla linea di battuta. Da questa posizione magnifica, surreale, l’erba verde più famosa del mondo la puoi quasi toccare, devi fare uno sforzo di autocontrollo per non scendere e calpestarla almeno una volta. Tutti i dettagli hanno una precisione da film di Wes Anderson, come se da ogni inquadratura che può rubare l’occhio umano dipendesse l’esperienza estetica assoluta che si prova all’interno del Club.

Il giudice di sedia, Mohamed Lahyani, ha un sorriso bonario, lo rivolge prima al pubblico e poi ai raccattapalle dietro di lui. Fa un cenno e finalmente si comincia, inizia la danza: i ball boys entrano in campo con passo marziale. Sei in tutto, due per ogni lato e due a rete. I gesti hanno un fascino magnetico e lievemente inquietante. Uno accentua la marcetta con cui si sposta all’angolo di competenza, è buffo come Peter Crouch che fa la robot dance, ma senza ironia, con la gravità di un momento che ricorderà per tutta la vita.

Sono uno spettacolo incredibile, i raccattapalle di Wimbledon: si muovono felpati e meccanici al tempo stesso; si arrestano ai loro posti dritti, rigidissimi, non tradiscono un’emozione che sia una. Attori non protagonisti di uno degli spettacoli più solenni della storia dello sport, non sbagliano un movimento, non concedono un’espressione, li vede solo chi decide di osservare. Sono poco più che bambini ma sembrano programmati con l’intelligenza artificiale.

Dal 2012 Sarah Goldson è la responsabile dei raccattapalle del torneo più importante del globo. Insegna educazione fisica al Queen Mary’s College di Basingstoke, a un’ora da Wimbledon, ha uno sguardo insieme gentile e severo. È cortese, ma si percepisce il fremito di chi ha fretta di tornare al lavoro: è una faccenda, con ogni evidenza, che prende molto sul serio: “In questo torneo gli standard sono elevatissimi, la cura del dettaglio è maniacale“. Spiega i numeri della sua impresa: i ball boys (e le ball girls) di Wimbledon sono 277, divisi in 45 squadre da 6. Ci sono sette riserve: “Abbiamo bisogno di qualcuno pronto a subentrare in caso di infortuni o malori“, spiega Goldson, “toccando ferro (in inglese è ‘touching woods‘) non è ancora mai capitato”. L’unico incidente è stato un violento dritto di Holger Rune che ha centrato in pieno il raccattapalle sotto rete, ma senza conseguenze palpabili.

Sono tutti teenager, tra i 13 e i 19 anni. Per arrivare qui hanno sostenuto un processo di selezione di notevole asperità. Una quota spetta ai “recall“, ball boys esperti, già impiegati nell’edizione precedente, che devono comunque superare un esame per meritare la conferma. Gli altri sono reclutati da 32 scuole locali. “Prendiamo massimo dieci ragazzi per istituto. Quest’anno si erano presentati circa 1.500 studenti“. La prima scrematura la fanno direttamente i professori delegati da Wimbledon: si comincia con otto quiz che testano la conoscenza del gioco e gli esami sulle capacità fisiche degli aspiranti. Chi passa il turno finisce nel plotone della sergente e comincia a fare sul serio. “Gli allenamenti iniziano a febbraio: una volta a settimana per due ore e mezza”. Gli eletti che superano lo squid game di miss Goldson fanno il loro esordio nelle qualificazioni e nelle eliminatorie delle wild card. Poi, finalmente, i Championships.

A Sarah sembra tutto sommato naturale che nemmeno uno di questi giovani esseri umani sia mai crollato sotto la pressione di lavorare in una cattedrale del tennis, di fronte a 15mila persone (e miliardi collegate in video da ogni parte del mondo). “La formazione è lunga e severa, si svolge in un ambiente così competitivo che finisce per prepararli in modo naturale all’impatto con grandi folle e giocatori famosi. In questa fase sono diversi quelli che non ce la fanno, magari non sono ancora pronti emotivamente, oppure semplicemente non hanno abbastanza forza fisica. Gli allenamenti si fanno su campi indoor: se non sei in grado di far rotolare la pallina velocemente su quella superficie, sull’erba non hai nessuna possibilità. Ma chi viene scartato può riprovare l’anno dopo”.

Educazione windsoriana. Non c’è preparazione psicologica specifica, solo qualche “briefing” per aggiornare i ragazzi sulle caratteristiche dei giocatori che si troveranno di fronte: “C’è l’atleta che vuole un numero maggiore di palline prima di battere, quello che si infastidisce se ti prendi la confidenza di appoggiare direttamente le palla sulla racchetta, quello che ha bisogno di più spazio e una distanza maggiore per concentrarsi”. Alcuni tennisti sono più temuti e problematici? “Probabilmente sì”, ammette miss Goldson con un mezzo sorriso, ma non si lascia sfuggire nemmeno un nome. Un ex raccattapalle di Indian Wells, ovviamente anonimo, aveva stilato su Reddit una classifica di simpatici e antipatici: il migliore Sinner, sempre educato; il peggiore Zverev, che ogni tanto sfoga sui ball boys la frustrazione della sconfitta. Ma questa è un’altra storia.

Quella di Sarah Goldson, invece, pare scritta a tavolino per spiegare il mistero per cui Wimbledon, malgrado tutto, conservi ancora la stessa dimensione magica di quasi 150 anni fa. “Ho vissuto fino a 16 anni in Kenya“, racconta. “Questo torneo era un pianeta lontano, lo sognavo dallo schermo della tv“. Arrivata in Inghilterra, il primo pezzo di quel sogno l’ha realizzato mettendosi in fila. Sedici è il suo numero fortunato. “Sixteen times ho partecipato a The Queue – la coda leggendaria che ad ogni alba si allunga nel parco di Wimbledon per mettere le mani sui pochi biglietti giornalieri messi in commercio – e per 16 volte ne sono uscita vincitrice, con il ticket in tasca. Ho perso il conto delle notti in sacco a pelo. The Queue è molto cambiata da allora, ai miei tempi era un’esperienza molto più estrema, oggi è piena di lussi!”. Sarah sorride: di strada ne ha fatta, fila dopo fila. Come mai invece i suoi raccattapalle non ridono mai? “Non c’è alcun divieto, lo assicuro. Sono solo straordinariamente concentrati“. Sembrano soldati. “E infatti sono preparati con metodi marziali. Pancia in dentro, spalle alte, non ti muovere. Ma non si lasci ingannare, dietro quegli sguardi seri c’è una giovane persona che sta realizzando un sogno“.

Photo credit: ©AELTC/Thomas Lovelock

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