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A Napoli si commemora il cooperante Mario Paciolla. La famiglia si opporrà all’archiviazione: “Tanti elementi non chiari”

“A Napoli Mario era un ragazzo conosciuto e ha amato profondamente questa città dove aveva tanti legami affettivi. Oggi Napoli lo ricorda in una commemorazione ed è un bel segnale. È una città viscerale che sa stare unita nei momenti in cui è necessario stringersi al fianco dei propri cittadini che subiscono ingiustizie”. A parlare a Il Fatto Quotidiano sono Anna Motta e Giuseppe Paciolla, i genitori di Mario Paciolla, il cooperante italiano ritrovato morto il 15 luglio 2020 in circostanze ancora non chiarite nella sua casa a San Vicente del Caguán, nel dipartimento di Caquetá in Colombia. Dipendente operativo della missione di verifica delle Nazioni Unite nel paese, era stato trovato impiccato al soffitto della sua abitazione con un lenzuolo in un apparente scenario di morte autoinflitta.

I genitori di Paciolla non hanno mai creduto all’ipotesi che loro figlio si sia tolto la vita e in quattro anni non hanno smesso di chiedere verità e giustizia. Nel giugno 2024 la procura di Roma, che ha condotto le indagini, ha archiviato il caso accettando l’ipotesi del suicidio. Contro l’archiviazione, la famiglia Paciolla formulerà una nuova richiesta di opposizione. Anche per le autorità colombiane e le Nazioni Unite il cooperante si sarebbe ucciso con un lenzuolo, ma sono numerosi i punti della vicenda che continuano a non essere chiari. In primo luogo, c’è la pulizia della casa di Paciolla coordinata personalmente da Christian Thompson: il responsabile della sicurezza della missione ed ex membro dell’esercito sarebbe entrato nell’appartamento, facendosi consegnare le chiavi dal proprietario colombiano.

“Abbiamo bisogno di risposte che purtroppo non ci vengono date. Vorremmo sapere perché, nelle ore successive al ritrovamento del corpo, l’ambasciata non è stata avvertita della morte violenta di un italiano. Vorremo sapere perché le chiavi dell’appartamento non sono state consegnate alla polizia investigativa, perché sono state trattenute da un membro dell’Onu e perché dopo 48 ore, senza attendere un esame autoptico, l’appartamento privato di Mario è stato ripulito con acqua e candeggina e sono stati gettati in discarica oggetti e prove utili all’indagine”, affermano Anna Motta e Giuseppe Paciolla. “Vorremmo sapere perché nella prima comunicazione del 15 luglio sulla morte di Mario, la legale dell’Onu parla subito di suicidio e ci chiede se volevamo la restituzione del corpo”, proseguono.

La prima autopsia, eseguita in Colombia e affidata dalle Nazioni Unite a un medico della missione, aveva derubricato il caso come suicidio. Ma stando alla seconda autopsia eseguita in Italia dal medico legale Vittorio Fineschi e dalla tossicologa forense Donata Favretto e consegnata alla procura di Roma già nel 2020, i cui dettagli erano stati resi noti nel 2022 dalla giornalista Claudia Julieta Duque di El Espectador, alcune prove supportavano l’ipotesi dello strangolamento con successiva impiccagione del corpo. La seconda analisi dettagliata delle lesioni aveva anche permesso di determinare che alcune ferite erano state inflitte quando Paciolla era in uno stato agonizzante o era già morto.

Poco prima di morire Paciolla aveva riferito ai genitori di avere paura e di non sentirsi al sicuro: si era scontrato con i capo missione e proprio Christian Thompson, secondo le ricostruzioni, sarebbe stata una delle ultime persone sentite prima della morte. In Colombia il cooperante aveva fatto ricerche su un bombardamento, avvenuto il 29 agosto 2019 ad opera dell’esercito colombiano, sull’accampamento di Rogelio Bolivar Cordova, il comandante di una cellula di dissidenti delle Farc, nel quale erano morti anche sette minorenni. Secondo la ricostruzione di El Espectador la notizia della morte dei bambini sarebbe arrivata nelle mani del senatore Roy Barreras, che ha poi ottenuto le dimissioni del ministro della Difesa Guillermo Botero, tramite Raul Rosende, direttore della missione di verifica di Paciolla. Questo avrebbe creato tensioni all’interno delle Nazioni Unite.

Il cooperante voleva rientrare in Italia e proprio le Nazioni Unite erano a conoscenza del suo imminente ritorno. Paciolla sarebbe dovuto partire da Bogotà il 20 luglio 2020: “L’unico a sapere della sua partenza era l’Onu che ha prodotto la documentazione per rientrare con un volo umanitario, considerando che eravamo in pandemia. E forse era anche l’unico a sapere del momento esatto dell’acquisto del volo. Mario in due ore circa, questo è il tempo intercorso tra l’acquisto del biglietto e l’ultimo accesso al computer, avrebbe dovuto pensare, programmare ed eseguire il suo suicidio tra l’altro con una modalità davvero complessa”, commentano i genitori.

Le Nazioni Unite avevano dichiarato di avere aperto un’indagine interna ma “dopo il primo e unico contatto con l’Onu, niente sappiamo dell’indagine che hanno sempre detto che avrebbero svolto”, proseguono. “Dopo quattro anni c’è un silenzio assordante. I comportamenti adottati da questa organizzazione, che pur è a tutela dei diritti umani, oseremmo dire sono davvero bizzarri e deprecabili. Non sono giustificabili e comprensibili. Pensiamo che restare in silenzio e non dare spiegazioni sia un atto molto grave. Mario era un loro dipendente ed è morto sul lavoro. L’Onu aveva e ha tuttora precisi obblighi contrattuali. Ma sta omettendo chiaramente di spiegare e giustificare tutte le mancanze dei protocolli internazionali e quelli relativi all’organizzazione stessa”.

In quattro anni le manifestazioni di solidarietà non si sono fermate. Il 15 luglio alla commemorazione a Napoli partecipano, tra gli altri, Amnesty International, Articolo21 e Fnsi. “Sappiamo che Mario ha seminato tanto, tutti i luoghi e le persone che incontriamo hanno una sua traccia. A volte ci sembra incredibile come questo possa succedere, eppure succede. Ultimamente abbiamo incontrato un gruppo di persone, familiari di vittime innocenti, arrivate dalla Francia per commemorare il trentennale della morte di don Giuseppe Diana. Eravamo presenti per testimoniare la vicenda di Mario, quando il loro capogruppo ci ha detto che conosceva nostro figlio in quanto giornalista di Cafèbabel, rete europea che Mario aveva portato a Napoli. Finita la riunione, si è avvicinata una ragazza che ci ha salutato affettuosamente dicendo di essere sua amica. Ci ha fatto vedere una foto che gli aveva scattato. Sappiamo che i luoghi che frequentava sono e saranno sempre anche i nostri. Continueremo a essere dove Mario sarebbe stato. La sua vita è stata breve ma intensa e vissuta con amore da uomo libero”.