Salute

Covid, a sorpresa un nuovo picco estivo. Svelato il mistero di chi è immune al virus

Se dobbiamo abituarci alla convivenza periodica con questo virus, resta ancora un mistero il fatto che, nonostante uno si ammali, anche più di una volta, altre persone, seppur restate a stretto contatto con chi è positivo al Covid, continuino a restarne immuni

Siamo ormai in piena estate, ma i casi di Covid-19 continuano a presentarsi. A dimostrazione del fatto che il virus Sars-CoV-2 “non sia più stagionale ma determinato nella sua aggressività dalle varianti che emergono”, ha commentato all‘Adnkronos Salute Massimo Andreoni, direttore scientifico della Simit, la Società italiana di Malattie infettive e tropicali. “Siamo di fronte a un picco estivo dei casi Covid che certamente era inatteso perché di fatto avevamo visto un progressivo scemare dei contagi. Ma proprio la nuova sottovariante, la KP.3, sta determinando questo rialzo con qualche ricovero in più negli ospedali”, spiega Andreoni. In ogni caso, nessun allarme, occorre solo adottare le consuete precauzioni, ossia igiene delle mani e, in presenza di sintomatologia respiratoria, evitare permanenze in spazi chiusi e affollati.

Perché restano immuni
Se dobbiamo abituarci alla convivenza periodica con questo virus, resta ancora un mistero il fatto che, nonostante uno si ammali, anche più di una volta, altre persone, seppur restate a stretto contatto con chi è positivo al Covid, continuino a restarne immuni. Un rebus che forse è stato risolto dallo studio “UK COVID-19 Human Challenge” pubblicato su Nature, che ha reclutato 36 volontari che hanno accettato di farsi infettare dal virus SARS-CoV-2. I ricercatori hanno così scoperto una serie di risposte immunitarie mai viste prima. Il team di ricerca internazionale, guidato da scienziati britannici della Divisione di Medicina dello University College di Londra e del Wellcome MRC Cambridge Stem Cell Institute dell’Università di Cambridge, ha collaborato con i colleghi di diversi istituti. Fra quelli coinvolti il The Netherlands Cancer Institute di Amsterdam (Paesi Bassi); il Dipartimento di Malattie Infettive dell’Imperial College di Londra; la società hVivo e altri.

La ricerca
I ricercatori, coordinati dai professori Marko Z. Nikolić, Sarah A. Teichmann e Rik G. H. Lindeboom, sono giunti alle loro conclusioni dopo avere infettato con il coronavirus SARS-CoV-2, attraverso una siringa infilata nelle narici, 36 soggetti giovani e sani. L’obiettivo era valutare nel modo più approfondito possibile la risposta del corpo umano all’esposizione di un patogeno sconosciuto. Attenzione però, lo studio è stato avviato quando non erano ancora disponibili i vaccini e la pandemia stava mietendo un numero significativo di vittime. Di questi 36 volontari,16 sono stati seguiti dai ricercatori in modo specifico per verificare la risposta all’esposizione virale a livello di singola cellula, valutando la funzione delle cellule immunitarie mediante l’analisi del sangue e di campioni della mucosa nasale. Dopo l’esposizione al virus, 6 persone hanno sviluppato sintomi lievi da COVID-19, altri 3 sono andati incontro a un’infezione transitoria, mentre in 7 sono rimasti negativi, pur avendo ricevuto il patogeno, come detto, direttamente dall’interno del naso in cui sono presenti numerose cellule sulle quali il SARS-CoV-2 può agganciarsi più facilmente.

La risposta immunitaria
Analizzando la risposta immunitaria di queste persone, il professor Nikolić e colleghi hanno scoperto che si era innescata una reazione immunitaria innata mai vista prima che ha eliminato il virus prima che potesse stabilizzarsi nella mucosa nasale e determinare l’infezione. In altre parole, il virus è stato scacciato senza attivare una risposta anticorpale. Come è successo? Per scoprirlo sono state sequenziate centinaia di migliaia di singole cellule, fino a individuare un gene chiamato HLA-DQA2 che risultava particolarmente espresso nel sangue e nella mucosa nasale delle persone con questa risposta innata particolarmente efficace.

Alcuni precedenti studi avevano associato questo gene a infezioni di Covid meno severe, la deduzione degli studiosi è stata quindi che il HLA-DQA2 potrebbe giocare un ruolo molto efficace nel proteggere alcune persone esposte al virus. “Un’elevata espressione di HLA-DQA2 prima dell’inoculazione era associata alla prevenzione di infezioni prolungate. Le cellule ciliate hanno mostrato risposte immunitarie multiple e sono state le più permissive per la replicazione virale, mentre le cellule T nasofaringee e i macrofagi sono stati infettati in modo non produttivo”, hanno scritto gli scienziati nell’abstract dello studio. Nelle persone protette da Covid si osservava anche un numero ridotto di globuli bianchi infiammatori coinvolti nella caccia e nella distruzione delle particelle virali, mentre in coloro che sviluppavano i sintomi della malattia, i ricercatori hanno rilevato una rapida risposta immunitaria dell’interferone nel sangue ma lenta nel naso, permettendo al virus di invadere la mucosa e scatenare i sintomi respiratori tipici della malattia.

Il parere dell’esperto
“È da tempo che ci siamo accorti di questo fenomeno in cui, per esempio, anche nelle malattie a trasmissione sessuale come l’Hiv o nel caso dell’epatite C, tra due partner abituali con frequente attività sessuale, uno dei due contrae la malattia, mentre l’altro risulta immune”, spiega al FattoQuotidiano.it il professor Fabrizio Pregliasco, Direttore sanitario d’azienda dell’IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio e Direttore Scuola di specializzazione in Igiene e Medicina preventiva dell’Università degli Studi di Milano. “In altre parole, è tipico di tutte le malattie infettive una variabilità nella risposta genetica di fronte a un attacco virale, attribuibile ad aspetti genetici, ma anche a condizioni particolari di risposta immunitaria. Tanto è vero che si parla di pazienti o soggetti classificati come T2 rispetto alla capacità di esprimere un’immunità innata”.

Professor Pregliasco, la ricerca in questione però, essendo basata su un campione di 36 persone, non ci permette di arrivare a conclusioni certe.
“Esattamente. Un singolo studio di questo tipo è ancora troppo limitato per farci dire di avere scoperto qualcosa di nuovo, ma risulta interessante proprio perché apre la strada a ipotesi di nuovi farmaci o vaccini più mirati”.

Ipotizzando allora che il ruolo del gene HLA-DQA2 è così determinante per arrestare la carica virale, e alla luce delle nuove conoscenze che ci dicono che anche lo stile di vita può influire sull’espressione genica, potremmo fare qualcosa anche noi stessi con le nostre scelte per migliorare le difese anche in queste situazioni?
“Va approfondito meglio il meccanismo fisiologico alla base del funzionamento di questo gene ipotizzato dalla ricerca in questione. Il secondo step sarà poi capire come questo funzionamento possa essere attivato agendo su più risorse”.