Nel suo libro, Massimo Danese smonta pezzo per pezzo la presunta messinscena della leggenda dell’hip hop
Metrica, flow, testi impegnati. La musica come strumento per sostenere la propria gente e combattere le ingiustizie. Tupac Shakur è stato una voce per tutti: soprattutto emarginati, rifiutati e oppressi. Attivista politico influente e trascinante, è divenuto col tempo un’icona dell’hip-hop americano e globale. Un personaggio sconosciuto venuto dalla strada. Scomodo, fastidioso. Così tanto che il 7 settembre 1996, all’età di 25 anni, venne ferito a Las Vegas da cinque colpi di pistola, morendo sei giorni più tardi.
Un omicidio tra i più celebri nella storia recente del rap: intricato, misterioso e difficile. Nel settembre del 2023 la polizia di Las Vegas ha messo dietro le sbarre Duane Keith Davis, individuandolo come colpevole del delitto. Fascicolo chiuso? Per niente. Nonostante la svolta nelle indagini, il decesso di 2Pac rimane, per molti, un caso irrisolto. E se il rapper avesse inscenato tutto, abbandonando la vita sotto i riflettori? Secondo Massimo Danese, docente, scrittore, ricercatore e studioso di fenomeni di frontiera, avrebbe avuto tutti i motivi per farlo.
È la teoria del suo libro “The Big Plan – Il mistero dietro la morte di Tupac Shakur”, edito da Arcana Edizioni. Un’altra versione dei fatti. Un’altra realtà condensata in un volume in cui, come in un puzzle, l’autore smonta pezzo per pezzo e nei dettagli la presunta messinscena della leggenda dell’hip-hop. Troppe le combinazioni fortuite: dalla cremazione avvenuta il giorno dopo il decesso all’annullamento delle cerimonie funebri, fino gli indizi (espliciti o meno) disseminati dallo stesso artista nei propri brani e nei relativi videoclip e alla celebre teoria del 7 (una serie di coincidenze in cui il numero ritorna nella vita di Shakur), solo per citarne alcune.
SAPEVA CHE SAREBBE MORTO PRESTO – “So che sto per morire. Loro devono uccidermi: la società, il sistema, lo status quo, l’impero del male. Loro devono uccidermi per quello che sono e per ciò che rappresento. Perché sono uno Shakur. La mia unica scelta è come moriro”, aveva rivelato 2Pac in una delle sue numerose interviste. Dichiarazione abbastanza enigmatica, soprattutto alla luce dell’ipotesi di Danese. Secondo l’autore, Tupac sapeva di essersi messo contro persone potenti. Avevano già cercato di ucciderlo. E quale modo migliore per nascondersi, che far credere al mondo di essere morto.
LO SCAMBIO DI IDENTITÀ E IL SILENZIO DEI POLIZIOTTI – Di qui, l’esigenza di scrivere e registrare più canzoni possibili in un solo anno. Ma soprattutto una pantomima organizzata nei minimi dettagli insieme ai suoi collaboratori (primo fra tutti, Suge Knight, uno dei co-fondatori e amministratore delegato della “Death Row Records”, l’etichetta con cui l’artista pubblicava), di cui avrebbe messo al corrente solo i familiari e gli amici più stretti. Uno scambio di identità, il silenzio pagato alle forze dell’ordine, ai medici e a chiunque, la sera di quel 7 settembre 1996, avesse intuito qualcosa mentre, nelle strade di una delle città più sorvegliate d’America, ingannava il mondo intero fuggendo in elicottero. Prima direzione Messico, poi Cuba.
Stando alle ricerche dell’autore, Shakur sapeva esattamente quando e come sarebbe uscito di scena. Uno tra i tanti indizi? Il suo ultimo album pubblicato da vivo, nonché il disco rap più venduto di sempre, “All Eyez On Me”, avrebbe dovuto chiamarsi “Supreme Euthanasia”. Un titolo metaforico troppo esplicito. Anche per Makaveli (altro pseudonimo dell’artista) che, durante gli ultimi anni di carriera e nei lavori pubblicati postumi, avrebbe disseminato le tracce di indizi sulla sua vera storia.
TANTI ELEMENTI SIMBOLICI E RIME IN SUO ONORE – Una vita di lotte e sacrifici. Ma soprattutto di cambiamenti (come il titolo, “Changes”, di uno dei suoi brani più famosi) che Tupac sognava per la società e a cui, invece, ha dovuto far fronte per salvarsi. Con una morte accettata da molti, ma non dai più scettici. E neanche da numerosi colleghi artisti che, velatamente o meno, hanno inserito nelle loro rime chiari riferimenti alla necessaria e, al contempo, geniale trovata di 2Pac. Alcuni esempi: in una gara di freestyle, nel 2005, Eminem inserì la frase: “L’hip hop non è stato più lo stesso da quando Tupac si è trasferito a Cuba”; in “Black and Yellow di Wiz Khalifa, T-Pain conclude la sua strofa con “Tornato dalla morte come Makaveli”; nel suo brano “Element”, Kendrick Lamar (grande fan del rapper) afferma: “Fingo la mia morte, trasferirmi a Cuba è l’unica opzione”.
50 CENT HA DETTO DI AVER PARLATO COL MORTO – E non è finita qui. Stando alle ricostruzioni dell’autore, 50 cent avrebbe caricato su Instagram una fotografia di Shakur affermando di aver appena chiuso una telefonata con lui. Un ulteriore indizio? Qualche anno fa, accusato di aver pianificato l’omicidio di Tupac e intervistato da TMZ, Suge Knight si è lasciato andare a una dichiarazione sorprendente: “Tutti voi pensate che io abbia ucciso Tupac, ma non sono stato io. Io sono quello che l’ha protetto […]. La gente mi chiede se conosco chi l’abbia ucciso, chi è stato a sparargli. Perché nessuno è stato arrestato per aver ucciso Tupac? Perché non è morto! È da qualche parte a fumare un sigaro cubano”.
Verità o menzogna, vivo o morto, quel che conta resta il messaggio che Tupac voleva trasmettere. Che un ragazzo venuto dalla strada potesse cambiare il mondo. Perché, come recitava uno dei suoi tatuaggi, “l’odio che si trasmette ai giovani fotte tutti” (The hate U Give Little Infants Fucks EveryBody). E lui aveva trovato il modo più diretto e genuino per diventare modello e simbolo della sua generazione: la musica.