L’Autorità internazionale dei fondali marini si riunisce in Giamaica per discutere del futuro dell’estrazione mineraria nelle profondità oceaniche, il ‘deep sea mining’ che preoccupa scienziati di tutto il mondo, per gli effetti devastanti che potrebbe avere il ‘saccheggio’ di ecosistemi già fragili. E se il governo Meloni, almeno per quanto riguarda quelle italiane, non ha fatto mistero di voler avere “un ruolo di primo piano”, in occasione dell’avvio dei lavori Greenpeace pubblica un’indagine sulle aziende italiane interessate. Da Fincantieri a Saipem, passando per Leonardo e Stellantis, nessuna ha politiche specifiche, ma in alcuni casi è evidente un interesse. La posizione dell’Italia, come accade anche per altri Paesi, deve fare i conti con due spinte opposte: da un lato l’interesse per una maggiore indipendenza sulle materie prime critiche, come litio, cobalto e terre rare, necessari alla ‘doppia transizione’, ecologica e digitale, dall’altro l’esigenza di una maggiore tutela ambientale. Basti pensare alla Strategia Ue per la biodiversità o al recente Accordo per l’alto mare sotto l’egida delle Nazioni Unite, che hanno indicato l’obiettivo di proteggere almeno il 30% della superficie marina, di cui il 10% che dovrà prevedere una tutela molto stretta. Ad oggi, però, non c’è una normativa internazionale sul deep sea mining che tenga in considerazione gli aspetti ambientali legati a questo settore.

La petizione per una moratoria – “Come da tempo sostiene la comunità scientifica, l’avvio delle estrazioni minerarie negli abissi potrebbe avere impatti devastanti. Si tratterebbe – spiega Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia – di un azzardo in netto contrasto con gli impegni recenti assunti a livello internazionale, inclusi quelli del nostro Paese, sulla protezione del mare. Ci auguriamo che l’Italia si aggiunga presto alla lunga lista di nazioni che chiedono una pausa precauzionale o una moratoria”. E questa richiesta è al centro di una petizione lanciata dalla ong nelle scorse settimane e rivolta al governo italiano affinché supporti una moratoria internazionale che blocchi l’avvio del deep sea mining. A Kingston sono partiti i lavori per discutere delle misure di protezione degli oceani e dei mari. Sono finora 26 gli Stati che hanno preso una posizione netta sull’estrazione mineraria in acque profonde. Al momento la Francia è l’unico Paese che sostiene un divieto, gli altri si dividono tra la richiesta di una moratoria o di una pausa precauzionale.

La posizione del Governo Meloni – “Se a livello internazionale l’Italia si mantiene abbastanza cauta sul tema – spiega Greenpeace – lo scenario cambia se si parla di acque italiane”. È in questo ambito che il governo Meloni intende legiferare sul deep sea mining. Ad annunciarlo sono stati i ministri Adolfo Urso (Imprese e Made in Italy) e Nello Musumeci (Protezione civile e Politiche del mare) alla convention del partito Fratelli d’Italia, che si è tenuta a Pescara ad aprile 2024. Il ministro Musumeci, in particolare, ha spiegato di essere “favorevole” al deep sea mining “se compatibile coi fondali marini”. Per poi aggiungere che l’estrazione di minerali e metalli dai fondali marini “rientra nella legge quadro sulla dimensione subacquea, che il governo vuole presentare entro l’estate. In Asia – ha aggiunto – questo tipo di lavoro produce enorme danno perché viene prodotto senza la sufficiente responsabilità, mentre in Italia crediamo di poter utilizzare i nostri minerali senza compromettere l’equilibrio del mare e dell’ambiente”. In realtà, fa notare Greenpeace, le estrazioni in Asia ad oggi avvengono in acque basse, come accade nei giacimenti di stagno nell’isola di Bangka, in Indonesia. Di fatto, il governo Meloni ha lasciato intendere di voler supportare il deep sea mining, potendo contare sull’apporto dell’industria estrattivista nazionale (soprattutto i colossi Saipem e Fincantieri, come provider di macchinari ed equipaggiamento), dell’industria elettronica (STMicroelectronic), dell’industria logistica (Alis) e della difesa (Leonardo). I rappresentanti di queste aziende erano tutti presenti alla convention di Fratelli d’Italia a Pescara “con il partito principale al governo che sposava in toto le istanze industriali – racconta Greenpeace – soprattutto nei panel ‘La sfida dell’indipendenza tecnologica’ ed ‘Economia del mare: una rotta da condividere’”.

Le possibilità (limitate) di trovare grandi depositi – Gli impegni assunti dai ministri Urso e Musumeci rispecchiano la direzione indicata dalla premier Giorgia Meloni a settembre 2023. Intervenendo al Forum Risorsa Mare di Trieste, la presidente del Consiglio ha affermato: “Una delle tante sfide che ci attendono è la corsa al mondo subacqueo e alle risorse geologiche dei fondali, un dominio nuovo nel quale l’Italia intende giocare un ruolo di primo piano”. Non è un mistero che l’Italia guardi all’esempio della Norvegia. A gennaio 2024, il Parlamento norvegese, su proposta del Governo, ha votato per consentire l’esplorazione dei fondali che ricadono sotto la giurisdizione nazionale. Dovranno poi essere sia il Parlamento che il Governo ad approvare eventuali piani di estrazioni. Ma se l’area individuata per l’esplorazione dalla Norvegia è nei pressi dell’Artico, in una zona molto vasta in cui è già nota una notevole presenza di minerali, per l’Italia le possibilità di trovare grandi depositi minerari sui numerosi monti sottomarini (o seamounts) del mar Mediterraneo sono invece più limitate. Eppure da parte del governo si registra una certa accelerazione. Specie se si pensa alla volontà di istituire entro il 2024 la Zona Economica Esclusiva, uno specchio marino più ampio in cui l’Italia mantiene i diritti sovrani di esplorare e utilizzare le risorse dei fondali marini secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. In assenza di dati certi, Greenpeace ricorda che le risorse minerarie in ottica del deep sea mining, seppur limitate, sono già note: “Si pensi, ad esempio, ai massicci depositi di solfuri nel Palinuro seamount, un complesso vulcanico sottomarino nel sud del mar Tirreno”. Attualmente non esiste alcuna attività di estrazione acque profonde nazionali da parte di società italiane, ma sono state condotte alcune attività di esplorazione, come il progetto Midas, che ha visto nel Palinuro Seamount una delle aree da investigare.

Il ruolo delle aziende – Le aziende italiane potenzialmente interessate alle estrazioni minerarie negli abissi non hanno specifiche politiche sul Deep sea mining e alcune guardano con interesse all’avvio di questa nuova forma di sfruttamento delle risorse naturali. Fincantieri è l’azienda italiana più propensa a svilupparla, tanto da aver sottoscritto negli ultimi anni, sia con Saipem sia con Leonardo, accordi di collaborazione per le attività estrattive sui fondali. L’organizzazione ambientalista ha realizzato una mappatura di tredici aziende italiane interessate alle materie prime critiche: dalla difesa all’elettronica, dall’automotive al navale, dagli accumuli alle batterie, fino a quelle specializzate nei servizi e nelle tecnologie subacquee. Sotto osservazione, dunque, Fincantieri, Saipem, Leonardo, MSC Crociere, STMicroelectronics, Energy SPA, FAAM, Trienergia, Stellantis, Alkeemia, Gaymarine, Drass e Gabi Cattaneo. Dall’analisi dei report e delle dichiarazioni di sostenibilità è emerso che nessuna ha politiche specifiche rispetto all’estrazione in acque profonde. La collaborazione strategica tra i due colossi nel campo della cantieristica navale e della difesa nasce anche alla luce della recente costituzione del Polo nazionale della Dimensione Subacquea, il centro italiano che punta a rafforzare ricerca e innovazione nell’ambiente sottomarino, per favorire opportunità industriali ed economiche. “Una situazione molto diversa rispetto a quanto avviene nel resto del mondo dove grandi aziende come Google, BMW, Volvo e Renault, hanno già preso posizioni contrarie. Nelle prossime settimane si giocherà una partita chiave per i nostri mari: i governi, incluso quello italiano, dovranno decidere se proteggere o sacrificare aree preziose del pianeta per gli interessi economici di pochi”, commenta Ungherese di Greenpeace Italia.

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