Ho visto la partita con gli inglesi in Inghilterra e sono ancora viva. Non solo: è stato tutto molto bello. Voglio dirlo subito. Perché non pareva scontato. Resta ancora impresso il ricordo del brutto gesto della finale contro di noi, quando si tolsero la medaglia (per non dire di Bruxelles…). Una nazione che non sa perdere, pur perdendo praticamente sempre. Danno spesso questa immagine di sè. E invece non è quel che ho vissuto ieri.

The Great Northern, un local pub nel cuore dell’Inghilterra. Uno di quei pub dove si conoscono tutti da sempre. Dietro il bancone solo donne, che neanche il Coyote Ugly. Tre sale tappezzate di schermi di varie dimensioni. Solo inglesi. E noi, un gruppo studio partito dalla Sicilia per studiare la loro benedetta lingua, tutti minorenni tranne me e l’altra accompagnatrice (mia sorella).

Al nostro arrivo tutti gli occhi erano puntati su di noi con estremo sospetto. Il sospiro di sollievo passava di bocca in bocca man mano che si passavano la notizia che no, non eravamo spagnoli.

“Siete in competizione con loro?”, azzardava qualcuno sperando in un sì. Avevo istruito i ragazzi: “Se vi chiedono chi tifate, se volete salva la vita, non dovete avere un istante di esitazione: Inghilterra!”. Ma di fronte a quella domanda non ho potuto mentire: “Tifo per voi ma gli spagnoli sono nostri fratelli”.
“Fair enough”, mi rispondono e il sollievo stavolta è mio.

Birre a fiumi, manco a dirlo: nel tragitto verso il pub perfino un uomo a terra ubriaco, alle 20.
Ma nessuna ossessione, nessun nervosismo, solo accoglienza, garbo e calore. Sì, proprio calore. Il pub è pieno di uomini e donne di tutte le età. Ci sono pure cani. Il barboncino corre dai nostri ragazzi per farsi coccolare e la sua padrona non perde l’occasione per raccontarci la sua vita.

È così che, mentre diventiamo parte di loro, arriva il primo goal della Spagna. Qualche pugno sul tavolo ma niente di più. Siamo noi i più dispiaciuti e loro ci guardano con gratitudine. Poi arriva il loro goal e gli animi si infiammano. È una festa, meno esagerata di quella che avremmo fatto noi, forse, ma pur sempre una festa. Ci infiammiamo anche noi, affamati di vittorie che non scorgiamo più. Ma dura poco. A pochi minuti dalla fine lo schiaffo in faccia della Spagna brucia le loro speranze. L’ennesima finale in tre anni, l’ennesima sconfitta, che brucia tantissimo. Ma fanno tutti spallucce: “La Spagna era troppo difficile da battere”. E, surprise, surprise: nessuno dà la colpa all’allenatore.

Qui, però, il mio sangue italico, si ribella: “In Italia daremmo tutti la colpa a Southgate”. “Ma non c’era lui in campo”, mi risponde uno di loro, che si sofferma a parlare con me della partita. Provo a dirgli che in Italia consideriamo Southgate uno dei peggiori allenatori dell’europeo (sostenuta dall’opinione che di lui ne ha mio nipote 13enne ma giocatore di calcio, nonché mio guru). Ma niente, non si convince. Per quello perdete, inizio a pensare e quasi provo a dirlo. Di sicuro in qualche modo provo a spiegargli che nel calcio esiste strategia e tattica. Lo spiego io, italiana del Sud, e lo spiego a un inglese, il popolo più strategico della Storia.

Lui accetta tutto, cala la testa, mentre il suo amico ripete che aveva previsto la vittoria della Spagna perché sono troppo forti. Li guardo, dispiaciuti ma calmi, educatissimi come solo loro sanno essere. E li invidio tantissimo.

Perché io stessa non avrei reagito così bene all’ennesima sconfitta in finale. Non ne hanno bisogno ma provo a consolarli: “Che ve ne fotte dell’Europeo, quel che conta sono i mondiali”. Ma anche qui fanno spallucce: “Impossibile vincere il mondiale”. E inizia una disquisizione su chi vincerà il prossimo. Azzardo con supponenza: “Lo vinceremo noi”. Loro sorridono e io poi rettifico mesta: “In realtà per come stiamo messi, non vinceremo nulla almeno per i prossimi dieci anni”. “Naaa – mi rispondono – l’Italia trova sempre il modo di vincere”. Subito ricambio: “Abbiate pazienza, ci state arrivando. Avete idea di quante delusioni abbiamo incassato noi? Vincerete, prima o poi vincerete”.

Altro giro di birre. Abbracci e saluti.

E fu così che ritrovandomi una sera a vedere una partita di Football (soccer lo dicono sono gli americani) in un pub inglese nel bel mezzo del nulla, mi innamorai, ancora una volta, dell’Inghilterra e delle loro deliziose maniere.

Succedeva tutto dopo la finale di Wimbledon. E nel pomeriggio un siparietto tutto diverso mi aveva lasciato addosso non poche riflessioni. Succedeva questo. Esterno giorno. In una piazzetta accanto alla stazione di Cambridge è stato montato un grande schermo che proietta la finale di Wimbledon. Un gruppo di spagnoli si ferma e verifica a che punto sta Alcaraz (a un istante dalla vittoria). Uno di loro alza le spalle, scuote la testa, e sospira: “Ganamos todo”.

E qualche ora dopo dal calcio arriva contro la conferma: vincono tutto. Sì, vincono tutto e non c’è dubbio: la Spagna sta vivendo uno dei suoi momenti più brillanti su tutti i fronti. Un Paese molto bello, solare, ordinato e pulito, perfino più economico del nostro e neanche si mangia male. Bisogna ammetterlo: la Spagna spacca. Si vive bene lì e si traduce in tutto.

Onore ai nostri fratelli, dunque. Sperando che anche noi possiamo tornare a brillare come loro. E a vincere. Vincere tutto. Oppure a perdere con le buone maniere leggendarie degli inglesi. Pur sempre dando la colpa al mister: educati ma lucidi.

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