La giustizia italiana rimane convinta: se i sette ragazzi che morirono sotto le macerie dell’edificio di via Campo di Fossa, all’Aquila, per effetto del catastrofico terremoto del 6 aprile 2009, è anche per la loro “condotta incauta“. A confermare la sentenza di primo grado del processo civile è stata la Corte d’appello aquilana che doveva decidere sulla richiesta di risarcimento dei familiari avanzata nei confronti dei ministeri dell’Interno e delle Infrastrutture, del Comune, degli eredi del costruttore. La richiesta è stata quindi respinta dai giudici di secondo grado: i parenti delle vittime dovranno pagarsi le spese legali, quasi 14mila euro. A pubblicare la notizia è stato il giornale abruzzese Il Centro.

E’ probabile che i familiari ricorrano davanti alla Corte di Cassazione contro il pronunciamento della Corte di Appello. “Come si può demandare la sicurezza ad un ragazzo di 22 anni?”, ha esclamato il padre di uno dei ragazzi, Nicola Bianchi, Sergio. Le altre vittime si chiamavano Ivana Lannutti, Enza Terzini, Michele Strazzella, Daniela Bortoletti, Sara Persichitti e Nicola Colonna.

Il centro della sentenza è la mancanza del nesso causale – per attribuire le responsabilità civili – tra la condotta dei giovani che morirono sotto le macerie di quel palazzo e i messaggi “rassicuranti” che furono diffusi dalla commissione Grandi Rischi dopo la riunione del 31 marzo, cinque giorni prima del sisma. In particolare prima di quel vertice fu Bernardo De Bernardinis, allora vice di Guido Bertolaso alla Protezione civile, a rilasciare alcune interviste in questo senso. “Non c’è un pericolo – disse tra l’altro -, io l’ho detto al sindaco di Sulmona la comunità scientifica mi continua a confermare che anzi è una situazione favorevole perciò uno scarico di energia continuo e quindi sostanzialmente ci sono anche degli eventi piuttosto intensi non intensissimi… Abbiamo avuto pochi danni”. Su quella riunione della Grandi Rischi si è celebrato anche un processo penale che in primo grado vide la condanna dei 7 scienziati che facevano parte della commissione a una pena di 6 anni, poi tutti furono assolti in appello con l’eccezione proprio di De Bernardinis, la cui condanna a due anni è stata confermata anche in Cassazione. Le parole di De Bernardinis (imputato per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose) ebbero, scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza, una “incidenza causale diretta nella formazione dei processi volitivi di alcune delle vittime nei momenti successivi alle due scosse ‘premonitrici’”.

In sostanza su questo fanno leva le famiglie e gli avvocati dei 7 ragazzi morti in via Campo di Fossa: sostengono che i giovani rimasero a casa, a letto, nonostante le scosse ripetute di quei giorni, anziché scendere in strada, perché condizionati dalle rassicurazioni delle autorità. Viceversa i giudici respingono questa tesi perché, in questo particolare caso, non c’è prova che questo comportamento fu dovuto ai messaggi della commissione Grandi Rischi. Tra i vari passaggi della sentenza uno è dedicato al caso di Bianchi (il cui padre da anni si batte per avere giustizia). “Al di là del fatto che non v’è prova della fonte della conoscenza della riunione del 31 marzo e della motivazione della rassicurazione tratta – sicché non v’è alcun elemento che la colleghi proprio alle dichiarazioni del De Bernardinis – gli stessi appellanti non contestano che, stando alle sommarie informazioni testimoniali dei genitori, il ragazzo decise di restare all’Aquila poiché aveva un esame il giorno 8 aprile e la notte del sisma, dopo la scossa delle ore 22.48, uscì in strada, circostanze che contrastano con la tesi che egli avesse così agito sentendosi tranquillizzato sulla base delle dichiarazioni del De Bernardinis e ormai non ritenendo più pericolose le scosse”. Dunque secondo i giudici le scelte di quei 7 ragazzi non furono basate né sulle decisioni della Grandi Rischi, né dalle parole di De Bernardinis in tv né da quelle ai giornali dell’allora sindaco Massimo Cialente.

I giudici rientrano nel merito anche dello scopo di quella riunione della commissione Grandi Rischi, molto dibattuta nel processo penale, anche sulla scia di una telefonata del 30 marzo 2009, intercettata casualmente, tra Bertolaso e l’allora assessora regionale Daniela Stati in cui il capo della Protezione civile diceva che la riunione era una “operazione mediatica”, che era stata convocata non “perché siamo spaventati o preoccupati, ma perché vogliamo tranquillizzare la gente”: “Bisogna zittire qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni”. Parole che ovviamente sono finite nel ricorso dei familiari dei sette ragazzi. Tuttavia per i giudici le prove raccolte (convocazione della riunione, verbali della stessa, deposizioni testimoniali), “al di là del convincimento del capo del Dipartimento di Protezione civile emerso nel corso della conversazione casualmente intercettata”, hanno “smentito o, comunque, non hanno dato conferma della tesi che gli esperti partecipanti alla riunione del 31 marzo – ad esclusione del De Bernardinis, vice di Bertolaso, il quale, peraltro, alla stessa non diede alcun contributo scientifico – avessero, a priori, l’obiettivo di tranquillizzare la popolazione e, quindi, di contraddire o minimizzare quanto desumibile dai dati oggetto della loro valutazione scientifica. Tesi che le parti appellanti ripropongono in termini meramente assertivi senza misurarsi con le risultanze istruttorie”. In sostanza quello che pensava Bertolaso non implica che i sette scienziati della commissione agirono con quella strategia.

Vale la pena sottolineare che la sentenza di secondo grado, per quanto se ne sa al momento, ha almeno evitato di non riprendere alcuni concetti a dir poco controversi della sentenza di primo grado del 2022 che suscitò comprensibile indignazione dei parenti dei giovani ma anche della cittadinanza. Nelle motivazioni il magistrato non si limitò a parlare di “condotta incauta trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile” ma aggiunse nero su bianco il concetto di “concorso di colpa“, quantomeno inusuale se attribuito a una vittima e non a un accusato.

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