Fortuna che un giudice non c’è solo a Berlino, ma anche a Genova. Anzi una giudice: Paola Faggioni, che comuni amici mi descrivono rigorosa, riservata e soprattutto priva di timori reverenziali. Per cui non sarà certo un vecchio arnese della giurisprudenza di Palazzo, quale il sedicente costituzionalista Sabino Cassese, a imporle di fermare le inchieste; il cui risibile parere, allegato nel ricorso al Tribunale del Riesame presentato da Giovanni Toti è stato immediatamente sconfessato dall’ordinanza che respinge la richiesta del pervicace presidente di Regione Liguria di porre termine al suo regime domiciliare.

Probabilmente al Cassese, scrivendo il remake di “Nessuno mi può giudicare, neppure tu”, ridevano gli occhi; mentre eseguiva l’ennesima giravolta acrobatica di una vita trascorsa arrampicandosi sugli specchi per conto della corporazione politica più politicante. Fiducioso che – qualora fosse scivolato nella scalata particolarmente acrobatica per un ilare ottantottenne – non avrebbe corso particolari rischi, grazie alla propria natura gommosa che ne avrebbe garantito il rimbalzo.

Ciò che invece resta dell’imbarazzante performance, riconducibile all’antica categoria della “servitù volontaria”, è l’emergere di un criterio argomentativo che evidenzia le convinzioni maturate dal potere in questa fase storica. Già in passato si aveva l’improntitudine di affermare “a che serve il potere, se poi non se ne abusa?”. Ma da tempo non avevamo più avuto modo di ascoltare tesi ispirate dalla teologia “scabeccia” (per dirla alla zeneize) del cappellano di Arcore – il savonese don Gianni Baget Bozzo – pronto a giustificare birichinate e non solo del proprio signore e padrone strologando che l’elezione popolare corrispondeva a una sorta di unzione del Signore; il lavacro che monda da ogni peccato.

In quel caso rimembranza di antiche credenze medievali, secondo le quali i monarchi di Francia e Inghilterra, in quanto legittimi rappresentanti di Dio in terra, avevano ricevuto il dono celeste del “tocco taumaturgico”; la capacità di guarire malattie psicosomatiche con l’imposizione delle mani. Il popolino ci credeva, ma lo storico Marc Bloch spiegò trattarsi di una truffa politica finalizzata ad avvolgere di sacralità un potere regale caratterizzato dalla precarietà.

Purtroppo non circola un nuovo fondatore della scuola francese de Les Annales che smascheri garruli cortigiani tipo Baget e Cassese. Anzi – mentre l’acrobatico teologo fu liquidato da Berlusconi quando non gli servì più – l’ex Giudice della Corte Costituzionale, che ha fatto carriera partendo dalla provincia di Avellino, passa per un sublime lavacro di vergogne. Nel caso del Totigate, almanaccando la tesi secondo cui sarebbe irragionevole impedire di amministrare a chi è stato votato dai cittadini (nonostante – tra l’altro – il pauroso livello di manipolazione delle elezioni liguri portato alla luce dall’indagine dei pm). Quando il senso complessivo della vicenda in esame ormai è chiarissimo: un ras del porto di Genova avanti negli anni e dubitando delle capacità del figlio di gestire in futuro l’impresa, persegue acquisizioni indebite che aumentino il proprio asset societario per poterlo rivendere a un prezzo maggiorato a qualche investitore internazionale. Una fregola strumentalizzata da Toti & Co. per spillare al suddetto una montagna di quattrini. Cosa ci sia di sacralità della democrazia messa a repentaglio dai giudici nella losca vicenda non è dato di sapere. Semmai c’è tutta l’arroganza e l’improntitudine di chi pretende il via libera per le proprie birbonate.

Ma questi non sono più i tempi in cui la tradizionale pretesa di impunità conclamata dal ceto politico si traduceva in insabbiamento. Come nel caso del primo scandalo petroli; scoperchiato nel 1974 – guarda caso – da tre magistrati genovesi (Almerighi, Brusco e Sansa): le tangenti incassate dai segretari amministrativi dei partiti di governo dall’Enel e dai soci dell’Unione Petrolifera. Oggi la ruberia pretende la propria beatificazione in quanto eccezionalità. Anche perché la scena politica non è più occupata da protagonisti spregiudicati, seppure – tutto sommato – attenti alle regole formali del gioco. Oggi in campo ci sono i bulli alla Matteo Salvini e l’intero pollaio del governo Meloni. I miracolati del potere.

Gente senz’arte né parte che l’ineffabile ascesa alla poltrona ha convinto della propria straordinarietà. Su cui niente e nessuno può eccepire, mentre fanno carne di porco. Dal porto di Genova al ponte sullo Stretto di Messina. Pura immunità partitocratica.

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