Il suo libro è pieno di morte e sofferenza, ma anche di straordinaria resilienza e umanità. “Diario di un genocidio. 60 giorni sotto le bombe a Gaza” (Fuoriscena) del celebre scrittore palestinese Atef Abu Saif, ex ministro della Cultura dell’Autorità Nazionale Palestinese, è una potente testimonianza dello sterminio in corso nella Striscia di Gaza, più necessaria che mai, visto che i reporter internazionali non possono documentarlo, perché come denunciato la scorsa settimana da oltre sessanta organizzazioni giornalistiche, dal New York Times alla BBC, “a nove mesi dall’inizio della guerra, ai reporter internazionali viene negato l’accesso a Gaza, a eccezione di qualche raro tour organizzato dai militari israeliani”. Il Fatto Quotidiano ha intervistato Atef Abu Saif.
Lei è cresciuto nel campo profughi di Jabalia e ha vissuto una guerra dopo l’altra. Questa è diversa dalle altre?
“Sono nato nel 1973 due mesi prima che scoppiasse la guerra e da allora in poi ho vissuto sempre in guerra. Non solo io. Mio padre è nato durante la Nakba [l’espulsione dei palestinesi dalle loro case e terre nel 1948, ndr] e ha passato tutta la vita in guerra, ma con dei periodi di pace, o forse, di calma, e purtroppo è morto durante quest’ultima guerra, a causa della mancanza di cibo e medicine. Per me questa è molto diversa, molto più massiccia: la morte arriva dal mare, dal cielo, dalla terra, dai carri armati, navi, da diversi tipi di aerei, elicotteri, droni. Ogni giorno mi devo ricordare di aver vissuto e in tanti occasioni non ne ero sicuro: quando scrivevo e vedevo i miei lavori pubblicati in qualche giornale arabo o internazionale, mi dicevo: sì, ero vivo quel giorno, perché ne scrivevo. Ma non potevo essere sicuro di quello che sarebbe accaduto un momento dopo. In questa guerra ho perso 130 membri della mia famiglia. Credo che nella storia di Gaza, questa guerra sia senza precedenti. Stavolta le forze israeliane stanno distruggendo Gaza. Come cittadino di Gaza, dico che hanno cancellato Gaza. Ogni singola casa, ogni singola istituzione, biblioteca, museo, sala da concerto, teatro, ogni singola strada, giardino, università. In questa guerra, hanno distrutto diciannove università, oltre quarantasei istituzioni culturali, dodici musei. I numeri dicono tutto. Non dovremmo parlare di ‘ricostruire’ Gaza, ma di ‘ricrearla’”.
Secondo lei, qual è l’obiettivo di Israele in questa guerra?
“Sulla base di quello di cui sono testimone, l’obiettivo principale è cancellare Gaza. Questa non è una guerra che Netanyahu lancia contro Hamas o contro le milizie palestinesi. E’ una guerra contro l’esistenza del popolo palestinese a Gaza. Credo che lo scopo principale sia continuare la pulizia etnica che ha avuto luogo durante la Nakba, quando mia nonna e mio padre furono buttati fuori dalle loro case e ville a Giaffa e costretti a vivere in una tenda sulla sabbia rovente di Gaza. È folle pensare che, distruggendo una città e distruggendo più cittadini possibile di quella città, di possa arrivare alla stabilità o alla pace. La guerra porta solo alla guerra. Non possono cancellarci dalla storia. Non possono eliminare i palestinesi. Non è possibile vivere in pace e in sicurezza, se il vicino non vive nella stessa sicurezza e stabilità. Se guarda alle immagini di Gaza, non vede Gaza, vede distruzione ovunque. Sabbia, cemento, ceneri, centinaia di persone uccise che non sono state estratte dalle macerie. Il corpo di mia cognata è sotto le macerie da duecento giorni. Il grande poeta Salim Nafar, sua moglie e la loro intera famiglia sono anche loro sotto le macerie da duecento giorni. Il principale scopo di Netanyahu è semplicemente continuare questa guerra. Anche se le varie fazioni palestinesi a Gaza, inclusa Hamas, accettassero qualsiasi proposta di accordo, lui la rifiuterebbe, perché vuole continuare questa guerra per i suoi scopi politici. Purtroppo, dopo la Seconda guerra mondiale, abbiamo pagato gli errori dell’Europa, quando la nostra terra fu data ad altri. Noi non avevamo a che fare con l’Olocausto, ma siamo state vittime dell’Olocausto anche noi. Non lo abbiamo commesso noi, ma dobbiamo pagare per esso. E ora paghiamo la brama di rimanere al potere di Netanyahu”.
Lei è stato ministro della Cultura dell’Autorità Nazionale Palestinese: come guarda a questa guerra l’Autorità?
“L’Autorità palestinese ha lavorato duramente con i partner regionali e con la comunità internazionale per fermare questa guerra, ma purtroppo Israele è al di sopra della legge, quando si tratta di legge internazionale. Abbiamo lavorato duramente e io ero con altri due ministri a Gaza e abbiamo formato un comitato per supervisionare l’intervento umanitario internazionale. Abbiamo tenuto incontri a Gaza City e poi a Rafah con agenzie internazionali inclusa UNRWA, l’agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) e altre agenzie delle Nazioni Unite, ma qualunque cosa facciamo non è sufficiente. A un certo punto, io ho dormito per strada, perché non riuscivo a trovare una tenda in cui dormire: immagini gli altri quanto possono aver sofferto per trovare un posto in cui stare al sicuro e trovare cibo. Molte volte ho provato l’esperienza di non riuscire a trovare da mangiare per due giorni per me e mio figlio. E quindi, che può fare l’Autorità Palestinese? Può solo organizzare la pressione internazionale per aiutare Gaza, ma neppure l’Autorità Nazionale è gradita da Israele per questo: hanno detto che non vogliono alcuna forma di controllo palestinese su Gaza dopo questa guerra. Dal punto di vista della Cultura, ho fatto molto con il mio team a Gaza. Abbiamo denunciato la distruzione dei beni storici e culturali, abbiamo scritto lettere all’Unesco e ad altre organizzazioni internazionali sulla distruzione dei beni culturali compiuta da Israele, abbiamo pubblicizzato i lavori degli scrittori palestinesi che raccontano la loro esperienza durante la guerra, ma anche in questo caso non è abbastanza”.
Nel suo libro lei sembra avere pochissima speranza nelle negoziazioni, non crede che possano mettere fine a questa guerra?
“L’impressione che io e la maggior parte delle persone a Gaza abbiamo è che le negoziazioni siano state usate come un pretesto per continuare il conflitto e ogni volta che speriamo che abbiano un esito molto positivo, veniamo delusi. Ma quale altra scelta abbiamo? Non abbiamo scelta. Dobbiamo negoziare. La nostra unica speranza è porre fine a questa guerra attraverso i metodi pacifici. Ma anche se Hamas e le varie fazioni palestinesi accettassero tutte le condizioni dell’accordo americano o di qualsiasi altro accordo proposto, Netanyahu troverà un modo di continuare questa guerra, perché il suo futuro politico dipende molto dal fatto che vada avanti. Non un solo edificio a Gaza è sicuro: dove vanno a vivere gli abitanti? Non ci sono campi da coltivare, tutti i ristoranti e le industrie sono distrutti. Non c’è più nulla. Centinaia di altre guerre inizieranno, quando questa guerra finirà e non ci sono risposte chiare su come andrà a finire”.
Che tipo di futuro vede per la Striscia di Gaza?
“Ogni notte, quando sto con mia moglie e i miei figli ci chiediamo: torneremo di nuovo a Gaza? Mia moglie ha perso la sua unica sorella, non ha nessun’altra sorella o fratello, ha perso la madre e suo padre di settantacinque anni vive in una tenda. Ovviamente, ha perso la sua casa, come io ho perso la mia, ho perso mio padre, ecc. Ho vissuto tutta la mia vita a Gaza, sono venuto a Ramallah quando sono diventato ministro nel 2019. Tutto quello che voglio è tornare a Gaza. Lì ho i miei sogni, il mio passato, i miei ricordi e anche i personaggi dei miei libri. Ho scritto dieci romanzi in arabo. Tutti i miei personaggi vivono in quelle strade. Che futuro ha, Gaza? L’unico futuro è rialzarsi. Non so se sia una coincidenza o no, il simbolo del comune di Gaza è la fenice, l’uccello leggendario che risorge dalle ceneri. Va ricreata. Questa guerra non sarà l’ultima, se non ci sarà una pace duratura tra palestinesi e israeliani. L’unico modo per arrivare alla pace è avere uno stato palestinese. Gaza è la spina dorsale della nazionalità palestinese. Senza pensare al futuro di Gaza come parte della visione generale per risolvere il problema palestinese, avremo di nuovo un futuro come questo, io non voglio che i miei figli vivano in una guerra continua. E quindi, vista la situazione, qual è il futuro di Gaza? Fermare questa guerra, rifare Gaza e dare al popolo una speranza per il futuro”.
La grande mobilitazione delle università americane ed europee è la conferma che c’è un movimento mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. Se avesse una chance di suggerire a questo movimento come dare uno straccio di aiuto pratico al suo popolo, cosa suggerirebbe?
“Ovviamente, è apprezzato. Questa è simpatia per le vittime e deve andare avanti, deve diventare ancora più forte e si dovrebbe trasformare in un movimento di pressione che agisce a livello locale sui governi. Per prima cosa fermare ogni aiuto, supporto e, a volte, anche le relazioni con Israele perché Israele gode di un accordo preferenziale con l’Unione Europea che permette alle università di Israele di condurre ricerche che l’industria militare usa e i prodotti delle colonie vengono esportati in Europa e anche in Italia come prodotti di Israele, ovviamente non scrivono che si tratta di prodotti delle colonie. Ci sono molte cose da fare. Dobbiamo mantenere fede ai nostri principi. Siamo umani o no? Non si capisce perché i paesi europei non riconoscono uno stato palestinese. Non ha senso. Se qualcuno scendesse da Marte o da Giove sul nostro pianeta e sentisse questo, penserebbe che si tratta di una favola. È folle, perché se c’è una guerra tra due popoli e si riconosce uno come stato, mentre si nega lo stesso riconoscimento all’altro, poi come si può dire che si è a favore della pace? E quindi la mobilitazione a favore della causa palestinese dovrebbe spingere i governi a fare questo, non dovrebbe essere solo una forma di simpatia per la vittima, ma anche per le richieste della vittime. È importante capire che Israele non è una nazione al di sopra della legge e non dovrebbe essere trattata come intoccabile. Siamo tutti essere umani, tutti figli di Dio, tutti uguali, nessuna religione è migliore delle altre. Siamo tutti uguali”.
Ci sono pagine estremamente drammatiche nel suo libro, come quando racconta di essere stato costretto a scappare dal nord di Gaza con suo figlio quindicenne, Yasser, che spingeva la sedia a rotelle con la nonna: mentre passavate i checkpoint israeliani, lei raccomandava al figlio adolescente di non guardare decine e decine di cadaveri in decomposizione ai bordi delle strade, decapitati e con i corpi smembrati. Lei coltiva ancora la speranza di vivere in pace nelle vostre case, nel vostro stato?
“Chiunque non riconosce lo stato della Palestina, chiunque non supporta la causa della Palestina, prende parte in questi crimini commessi contro i civili a Gaza. Ma la speranza è l’acqua con cui innaffiamo l’albero della vita, in modo che cresca. Senza speranza non possiamo sopravvivere. Se mia nonna, Aisha, quando fu buttata fuori dalla sua villa sulla spiaggia di Giaffa – che ancora oggi esiste ed è abitata da migranti ebrei dalla Polonia, credo – non avesse avuto speranza, non avrebbe fatto nascere mio padre, negli anni ’50. Credeva che la vita dovesse andare avanti e che il futuro sarebbe stato migliore. Viveva in una tenda quando lo partorì. Ricordo quando insegnavo scienze politiche e una mia studentessa mi disse: ‘Vede professore, sono bellissima’ e si rimosse il copricapo, lasciandosi cadere i lunghi capelli neri sulle spalle, ‘potrei essere una miss universo, ma poiché vivo a Gaza, non posso neppure partecipare al concorso’. I sogni del popolo di Gaza sono semplici. Vogliono vivere. E dovremmo aiutarli a vivere”.