di Leonardo Botta

Avevo sentito parlare delle Langhe, il fertile territorio collinare che si estende tra le province di Cuneo e Asti, tra vigneti organizzati in ordinati filari, distese di noccioli governate da operose cascine e rigogliosi canneti che costeggiano il letto dei fiumi Belbo e Tanaro. In realtà ne avevo letto, non dai sussidiari o dai testi di geografia a scuola bensì dai romanzi di Cesare Pavese e Beppe Fenoglio. Territori splendidi, dicono, al punto da essere riconosciuti, nel 2014, patrimonio dell’Unesco.

I libri di Pavese e Fenoglio raccontavano le Langhe dei tempi duri a cavallo tra le due guerre: terre popolate da gente aspra, come le acclività di quelle colline. Gente impegnata a spremere ogni zolla di terreno insieme con la propria famiglia (bambini e ragazzi compresi) per ricavarne il necessario sostentamento, in proprio oppure al servizio di qualche fattore magari avido e sfruttatore. Ma nulla in confronto a ciò che, ahinoi, le cronache giornalistiche e giudiziarie ci stanno raccontando in questi giorni.

Scene di un caporalato retrogrado e vessatorio ai danni, manco a dirlo, di immigrati clandestini impiegati massicciamente tra quei filari messi a dimora per produrre i migliori Barolo, Barbera, o Nebbiolo in condizioni che definire disumane è usare un eufemismo: miseri alloggi sovraffollati, paghe da fame per condizioni di lavoro e orari insostenibili, botte da orbi a chi osa solo protestare. Scene che temo accomunino le colline piemontesi con le pianure pontine, il tavoliere pugliese o la piana del Sele e l’Agro nocerino-sarnese nella mia Campania (la terra in cui, non molti anni fa, artisti popolari cantavano “A Nucera e a San Marzano pummarole paisane / s’arricchisce ‘o cunserviero sfruttatore e menzogniero…”).

Scene alimentate da un mercato che vede produttori e consumatori impegnati in una feroce diatriba, tra i primi che piangono miseria per le proprie poco redditizie attività e i secondi che lamentano prezzi da gioielleria al banco ortofrutticolo. In mezzo c’è quest’esercito di disperati che, nell’immaginario collettivo sarebbero quelli che si avventurano in pericolosissime traversate nel deserto o in mare per venirci a “rubare il lavoro”; e mentre ci “rubano il lavoro” ogni tanto ci lasciano la pelle, com’è successo al povero Satnam.

Scene che, se fossero fotogrammi di un film, non potrebbero che essere trasmessi in bianco e nero; come quelle de Il cammino della speranza, il film di Pietro Germi del 1950 che narrava le vicende di un gruppo di siciliani che, a causa della chiusura della solfara, principale attività del loro paese, si vedevano costretti, tra mille peripezie, a risalire lo stivale verso la Francia in cerca di lavoro e futuro e, in una delle tappe di avvicinamento in Emilia Romagna, venivano presi a male parole dagli operai locali al grido di “crumiri!” (allora i siculi, oggi gli africani: come direbbe il buon Luciano De Crescenzo, “si è sempre meridionali di qualcuno”).

Scene che, con il dovuto rispetto per gli orrori della Shoah, potrebbero persino evocare le pagine di altri scrittori e altri libri, come Primo Levi e il suo Se questo è un uomo.

Forse sto esagerando. O, forse, mica tanto.

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