Il botto nella serie Netflix “Il caso Yara: oltre ragionevole dubbio” , dal 16 luglio disponibile online, arriva nel terzo episodio
“È più facile puntare il dito contro una persona e condannarla che ammettere di aver fatto un grosso sbaglio”. Il botto nella serie Netflix “Il caso Yara: oltre ragionevole dubbio” , dal 16 luglio disponibile online, arriva nel terzo episodio. Quello dove Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo nel 2018 per l’omicidio di Yara Gambirasio, appare per la prima volta fronte camera per ribadire che lui quella ragazzina non l’ha uccisa. “È da tanto tempo che aspetto questo momento”, spiega Bossetti prima che inizino le sequenze ricostruite del tour de force del Dna (tre milioni di euro di indagini, recupero del Dna di migliaia di cittadini nelle valli bergamasche, confronti su confronti tra profili genetici). Bossetti appare con una camicia blu, pantaloni chiari e scarpe blu, mentre si siede per terra nel cortile del carcere oppure mentre calcia un pallone contro il muro di cinta. “Un giorno mentre ero in isolamento entra una persona mi sbatte un foglio bianco davanti, mi dà una biro, e mi dice dobbiamo arrivare a un compromesso: ‘Vuole vedere la sua famiglia o stare in questo buco? Metta giù quello che le dico’”. A quel punto Bossetti racconta che gli lanciò la biro addosso: “E allora sentii che quello uscendo disse a qualcuno: due giorni senza vitto”.
Piange Bossetti, si arrabbia contro la madre che mai gli disse quale fosse il suo vero padre, inveisce contro la pm Letizia Ruggeri che l’ha incastrato (“non ha mai voluto incrociare il mio sguardo in aula”), ma “Il caso Yara: oltre ragionevole dubbio” è il classico documentario di cronaca nera che, come una lunga puntata speciale di uno show tv alla Quarto Grado, o una puntata di Storie maledette di Franca Leosini, raccoglie la testimonianza esclusiva e poi rimette insieme nei dettagli i pezzi della pubblica accusa che inchiodò il sospetto in colpevole provando a far emergere in controluce elementi che possano ribaltare il verdetto ufficiale. Cinque le puntate da una cinquantina di minuti ciascuna per la docuserie prodotta da Quarantadue, scritta e diretta da Gianluca Neri che con Sanpa sollevò un notevole polverone attorno alle vicende giudiziarie sorte sul caso della comunità di recupero di San Patrignano governata come un padre padrone da Vincenzo Muccioli. Non che Bossetti nell’esclusiva intervista pronunci chissà quali novità di merito sul suo caso. Il suo mantra è “io non so nulla” e “non so perché mi hanno messo qui”. Semmai è nell’accumulo formale dei materiali d’archivio, nel montaggio spesso in sospensione degli audio, perlopiù inediti, del processo o delle chiacchierate tra Bossetti e i suoi familiari, che la serie diventa l’atto del repertare l’inedito. Ad esempio, nel secondo episodio, vengono mostrati i filmati degli investigatori che girano nel campo di Chignolo d’Isola, dove venne ritrovato il corpo di Yara, alla ricerca di prove e indizi tra erba secca e chiazze di terra, con la voce dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo che dettaglia le sue verifiche sul corpo della bimba morta.
Poi è chiaro, come in tutti gli approfondimenti di nera che si rispetti ci sono voci e volti di giornalisti (più o meno noti), avvocati, pm, parenti, passanti. Infine c’è l’insinuazione del dubbio, l’ipotesi impossibile che oltre la Cassazione si torni sul caso Gambirasio/Bossetti quasi che avessimo necessità che la telenovela possa spuntare e riproporre altri episodi, sequel, riaperture del caso. Invece la serie “Il caso Yara: oltre il ragionevole dubbio”, si ferma dove giudiziariamente si erano già fermati tutti gli altri, sfiorando nuovamente i sospetti sulla maestra di ginnastica Silvia Brena, gli strani spostamenti del custode della palestra (“Non sono mai stati indagati”, precisa la produzione sullo schermo), i video fake che i carabinieri usarono per mostrare l’andirivieni del camioncino di Bossetti davanti alla palestra di Yara. Insomma, un aggiornamento sul caso di buona qualità stilistica, ma che non può e forse persino non vuole andare oltre le sentenze dei tribunali, facendo riemergere quello strazio umano delle vittime che non troverà mai requie.