Il cinema di Abel Ferrara è inclinato da tempo nella discesa dell’irrecuperabile. Non che Padre Pio ne inverta improvvisamente la rotta. Però è davvero curioso rivedere, dopo quasi un decennio dal suo Pasolini, e oramai un trentennio dai celebri Kings of New York e Il cattivo tenente, un anelito formale e poetico dove l’autore inzuppa quel suo vivido anarchismo kitsch nel suo classico meccanismo cattolico di colpa e redenzione.
Giù perché Padre Pio, che esce il 18 luglio, e che in queste ore viene ri-presentato a Taormina Film Festival dopo aver avuto un’anteprima alle Giornate degli Autori di Venezia nel settembre 2022, è praticamente due film in uno. O meglio: il frate di Pietrelcina, il santo oramai, venerato su vetrofanie e lunotti, appare come un fantasma, aleggia proprio come un’anima tormentata per un minutaggio piuttosto esiguo in una macrostoria ampia estremamente politica (e ti credo, c’è un fenomeno allo script come Maurizio Braucci) che vede prima la nascita di una coscienza di classe tra contadini e braccianti sfruttati dai cattivissimi proprietari terrieri e poi l’affermarsi dei socialisti alle comunali del 1920 a San Giovanni Rotondo.
Ora, capiamoci: non c’è univocità tra gli storici sul fatto che il frate con le stimmate fosse coinvolto, come organizzatore e fiancheggiatore di un gruppo di Arditi e mutilati di guerra, in quello che sarà un massacro dei socialisti da parte dei carabinieri che spareranno sulla folla rossa. I Fasci da Combattimento ancora non avevano marciato su Roma, ma il Blocco d’ordine conservatore a fermare donne, anziani e lavoratori a cottimo piegati dalla fatica, ci mise un attimo: 13 morti dicono gli archivi storici; giusto una manciata di morti in Padre Pio di Ferrara, ma la dinamica di sopraffazione è la stessa.
Padre Pio, il protagonista, tace silente nella sua celletta, tra messe, comunione e spazi comuni conventuali. L’ambiguità con cui il regista rappresenta l’eccezionale silenzio e distacco del frate con le stimmate dagli eclatanti fatti di piazza diventa esso stesso elemento valutativo forte, come se Pio intento a rintuzzare i propri demoni interiori non volesse mostrare di difendere quella povera gente che, nonostante beatificazioni e santificazioni popolari post mortem per lui, non ebbe mai modo di sentire vicina se non in forma liturgica e catechistica. Tant’è che mentre il frate si contorce nella sua stanza per non cedere alle profferte del demonio (qui il kitsch con il babau nero e il ralenti e mille altre nequizie fanno sorridere), tra i campi i prepotenti agrari impongono ritmi massacranti, perfino mortali di lavoro, ai propri schiavi contadini senza che i preti buoni intervengano risolutamente.
Ferrara dota Pio perfino di un doppio, un sacerdote più anziano di lui che appoggia la conservazione e benedice pure fucili e pistole che spareranno per uccidere tra la folla (episodio che alcune fonti storiche riconducono proprio al Pio). Ebbene nell’ampia e articolata trama politica del film l’innesto cupo del frate, rabbiosamente confuso e iracondo, è il contraltare puntuale e narcisistico di un caos sociale ampiamente rivoluzionario visto dalla celletta monacale con un misto di fastidio e stupore. Ferrara si muove agile tra interni spesso deformati; fa borbottare preghiere a Padre Pio donandogli una presenza febbrile, schiva, risaltandone una coscienza avvolta nel buio; infine impone un ritmo di montaggio, ieratico e allo stesso tempo agilissimo, musicalmente rischioso e didascalico pop, che non si capisce bene se volontario dall’inizio alla fine o se dedotto dalla mancanza di alternative nel girato. E nonostante sembri di trovarsi di fronte a un film strano e disomogeneo, Ferrara ti stupisce riproponendo quel “ronzio di fondo del male” che si può sentire in altri suoi film, su violenza, ossessione, presenza del maligno.
Esemplare, anche se davvero mezzo millimetro più caricata e si cadeva nel trash, è la sequenza in cui un Padre Pio imbestialito e offensivo confessa il demone sboccato Asia Argento con i capelli cortissimi, priva di trucco e vestita da uomo. Il Padre Pio interpretato con penitenza, barbone e sguardo nel vuoto da Shia LaBeouf, infine, è torbido e codardo quanto basta per non concedere alla memoria del frate fittizie agiografie. Miracoli e buchi nel palmo delle mani fanno capolino, ma non sembrano affatto il centro del discorso.