La notizia che l’8 luglio la Corte d’Assise d’Appello di Bologna ha confermato la condanna di Paolo Bellini all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna ha trovato uno spazio limitato sulla stampa e nei Tg. Eppure, la sentenza d’appello, ribadendo la validità dell’impianto accusatorio di quella emessa nel 2022 dal presidente della Corte d’Assise Francesco Maria Caruso, ha una grande importanza per la conoscenza di quel drammatico decennio che chiamiamo “strategia della tensione”.

Le motivazioni della sentenza di primo grado (quelle dell’appello le conosceremo fra qualche mese) hanno rappresentato uno straordinario passo in avanti perché hanno ribadito in modo definitivo che la responsabilità della strage grava sulle spalle della destra eversiva e che l’attentato non è stato un atto isolato, ma del tutto interno a una seconda fase della strategia della tensione. Alle condanne di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro nel 1995, e di Luigi Ciavardini nel 2007, sono seguite infatti quelle non ancora definitive, ma giunte al secondo grado, di Gilberto Cavallini (2023) e ora di Bellini.

Nel corso degli anni, il grande lavoro di investigatori, magistrati e Associazioni delle vittime del terrorismo è riuscito dunque a individuare i nomi di una parte significativa degli autori della strage più grave avvenuta in Europa dal 1945 in poi, fino a quella islamista di Madrid nel 2004, e a diradare quella fitta cortina di nebbia che per decenni ha offuscato la verità.

Inoltre, in modo inedito, le indagini hanno cercato di individuare i “mandanti” non solo della strage di Bologna, ma dell’intera strategia della tensione. I nomi emersi sono quelli di Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, terminale di circoli politici statunitensi ed europei portatori di un radicale anticomunismo; Umberto Ortolani, uomo d’affari anch’egli piduista; Umberto Federico D’Amato, vertice dell’intelligence civile, ovvero dell’Ufficio affari riservati del Viminale; e Mario Tedeschi, ex X Mas, poi direttore del settimanale di destra “Il Borghese”. Gli inquirenti, partendo dall’assunto che compiere una strage costa, e costa molto, si sono impegnati in particolare a seguire il flusso di denaro che, partito dalle casse del Banco Ambrosiano, è arrivato nelle tasche di coloro che, pur se ormai defunti, sono stati riconosciuti come le menti della strage.

Altrettanto interessante è la parte conclusiva della sentenza di primo grado in cui si prova a sciogliere un nodo apparentemente estraneo alla strage, ma che è invece inestricabilmente legato a essa. Numerosi appartamenti a Roma, in via Gradoli 96 (e edifici limitrofi), erano di proprietà di società di copertura del servizio segreto civile. Proprio in quell’edificio, a partire dal 1975, hanno risieduto prima Mario Moretti e Barbara Balzerani, tra i massimi dirigenti delle Brigate rosse, e, dopo poco, esponenti dei Nuclei armati rivoluzionari, organizzazione neofascista responsabile dell’attentato nella città felsinea.

In altre parole, in una zona fortemente sotto il controllo dell’intelligence – per di più in una stradina a ferro di cavallo, e quindi con una sola uscita, che nessun terrorista avrebbe mai scelto spontaneamente come covo – hanno abitato esponenti dei massimi vertici di organizzazioni terroristiche tanto di destra, quanto di sinistra. È questo il nodo che si è cominciato a sciogliere. Tale acquisizione si collega infatti alle ormai provate relazioni intessute dal servizio segreto militare e dallo Uar di D’Amato con il terrorismo di destra, sin dagli anni Sessanta, per realizzare attentati e stragi.

Il dato inquietante è quindi che le stesse persone hanno svolto lo stesso ruolo nei confronti del terrorismo di sinistra, non solo a partire dalla vicenda di via Gradoli – il cui ex amministratore, Domenico Catracchia, ha avuto la conferma della condanna a 4 anni per aver sviato le indagini – ma già da prima. All’inizio degli anni Settanta, ad esempio, D’Amato aveva infiltrato nelle Br un suo uomo, Francesco Marra, un ex paracadutista che, come hanno raccontato vari brigatisti, aveva insegnato loro le tecniche della gambizzazione, mentre Pietro Musumeci, generale del servizio segreto militare, condannato insieme a Gelli e ad altri per aver depistato le indagini su Bologna, aveva contemporaneamente rapporti con i vertici delle Br.

L’obiettivo della strategia della tensione appare, perciò, sempre più chiaro: screditare gli “opposti estremismi” – estrema destra ed estrema sinistra – su cui scaricare la responsabilità del caos in cui era precipitato il Paese, per spingere l’elettorato a sostenere i partiti moderati e centristi, che sarebbero apparsi a quel punto gli unici in grado di difendere lo Stato sotto attacco. In definitiva, una grande operazione di stabilizzazione moderata, e non, come a lungo abbiamo creduto, di destabilizzazione politica o, peggio ancora, nata da nostalgie fasciste.

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