Scritto dalle nutrizioniste Sonia Calimandri e Gabriella de Miranda, è in uscita nelle librerie in questi giorni per Aliberti editore
Insieme alla transizione ecologica, dobbiamo cominciare a fare anche la transizione dietetica. Il nostro modo di mangiare, il nostro stesso rapporto con il cibo devono cambiare profondamente. Ne va della nostra sopravvivenza: non solo quella individuale, ma quella come specie umana su questo pianeta. È il messaggio che vuole lanciare il libro La dieta sostenibile. Scelte alimentari che salvano il pianeta, scritto dalle nutrizioniste Sonia Calimandri e Gabriella de Miranda, in uscita nelle librerie in questi giorni per Aliberti editore. La loro premessa è che sono ormai troppe le contraddizioni alimentari del nostro tempo. Troppo cibo in una parte del mondo e troppo poco nell’altra; troppe le calorie del cibo-spazzatura, troppa l’offerta di cibo ad ogni angolo e ad ogni ora.
La produzione della sola carne è responsabile del 18% di tutte emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane, pari a quella di tutte le attività industriali. Anche il pesce che finisce sulle nostre tavole impatta sulla sostenibilità ambientale; per non parlare della salute degli oceani e dei mari, di cui non si dice quasi nulla. L’unica strada possibile è acquisire una nuova consapevolezza di quello che arriva sulle nostre tavole. Diventare “mangiatori responsabili” e informati è la strada necessaria per farci vivere meglio tutti. In esclusiva per Ilfattoquotidiano.it, un estratto del libro e uno della Prefazione del professor Alberto Grandi, docente di Storia del cibo all’Università di Parma e autore di bestsellers come Denominazione di Origine Inventata (Mondadori).
ECCO GLI ESTRATTI IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA
In questo libro si parla di come le nostre scelte alimentari condizionino il nostro rapporto con l’ambiente. A prima vista, potrebbe sembrare una constatazione banale, dal momento che mangiare significa, in fondo, interagire con l’ambiente. Ma il fatto è che per noi oggi i confini delle nostre catene alimentari sono illimitati. Se prima della Rivoluzione industriale e soprattutto della rivoluzione dei trasporti, gran parte del cibo veniva consumato in un raggio estremamente limitato rispetto al luogo di produzione, oggi questi limiti non esistono più e di conseguenza l’impatto ambientale delle nostre scelte alimentari si può dispiegare su territori che sono molto lontani e che apparentemente non ci riguardano.
Questo ci riporta a un tema classico dell’economia, perché per quanto gli economisti si sforzino di ridurre le variabili in grado di determinare lo sviluppo di un’area o del mondo intero, vi sono eventi naturali, etici, culturali, sociali, politici i quali con i loro tanti e tormentati aspetti propri della natura, della vita umana e della civiltà costituiscono il più importante fattore causale della materia economica. E cosa c’è di più naturale, di più culturale, sociale e politico che mangiare? Nulla, probabilmente.
Anche l’etica ha molto a che fare con l’alimentazione. Mangiare o non mangiare un determinato cibo passa spesso attraverso la distinzione tra il bene e il male. “L’uomo è ciò che mangia” è l’aforisma sul cibo più citato di sempre. Al punto da diventare una sorta di tormentone. Come tutti sanno, il suo autore è il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872), che passò tutta la vita ad affliggersi perché della sua poderosa opera non veniva ricordata che questa unica frase. Forse pochi sanno, però, che il passo incriminato apparve per la prima volta in una recensione che Feuerbach dedicò al Trattato dell’alimentazione per il popolo del medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, pubblicato in Germania nel 1850. Un’opera rivoluzionaria, perché faceva della nutrizione il principio motore della storia umana. Ponendo il cibo all’origine della società, del pensiero, della religione e persino delle differenze culturali e di classe.
Di conseguenza la storia dell’umanità potrebbe essere ridotta nella ricerca del cibo perfetto. Il mantenimento dell’equilibrio all’interno del corpo attraverso l’alimenta-zione è oggi solo un aspetto del problema e di sicuro non ha più nulla a che fare con le strampalate teorie galeniche, ma è comunque un concetto che viene spesso veicolato attraverso i mass media sia nell’ambito dell’informazione scientifica sia, soprattutto, nella pubblicità. Il cibo biologico rappresenta perfettamente questa tendenza: l’idea che attraverso questo tipo di prodotti si mantenga l’equilibrio del pianeta e quindi anche quello del nostro corpo è abbastanza diffusa e spiega bene il successo di questo tipo di alimenti. Lo stesso meccanismo psicologico vale ovviamente anche per i cibi biodinamici, che vi aggiungono anche una dimensione magica.
Ma il fatto che oggi noi ricchi occidentali viviamo nell’abbondanza prefigura uno scenario del tutto nuovo e che deve essere analizzato a parte in questa ricerca del cibo perfetto. Perché oggi sembra plausibile pensare che il cibo perfetto sia quello che nega la possibilità di nutrire. L’avverbio più usato oggi, nel marketing alimentare, infatti, è “senza”. Senza grassi, senza glutine, senza ogm, senza zuccheri, senza olio di palma, senza conservanti, senza coloranti e così via, fino al paradosso logico rappresentato dalla definizione che sempre più spesso si trova sulle etichette di molti prodotti: “senza chimica”, che equivale a dire, senza tutto.
Questa tendenza, che non può essere definita solo come una moda, è iniziata pochi decenni fa. Basti pensare alla scena del film Ritorno al futuro nella quale Marty chiede al barista una «Pepsi senza», con la quale, lui, ragazzo del 1985, intende senza zucchero, ma il barista, che vive nel 1955, capisce senza pagare; perché ancora negli anni Cinquanta l’idea che potesse esistere una bibita senza zucchero era assolutamente priva di ogni ragionevolezza.
Se ci si pensa bene, è l’esatto contrario della cucina galenica, secondo la quale un cibo per essere sano, e quindi anche buono, doveva contenere tutto. In perfetto equilibrio, certo, e qui stava il difficile, ma resta il fatto che una cucina senza qualcosa era comunque una cucina zoppa, se così possiamo dire; priva di uno o più elementi essenziali. La massima ippocratica, fatta propria dallo stesso Galeno, «il cibo sia la tua medicina e la tua medicina il cibo», trova oggi una declinazione estrema, dal momento che ci si è convinti che non esista un cibo del tutto innocuo, per cui l’unico modo per fare del cibo la nostra medicina è non assumerlo. […]
La salute del singolo quindi passa anche attraverso la salvezza del mondo e, almeno in Italia, anche attraverso l’affermazione della propria identità culturale, che nega ogni legittimità e ogni valore alle cucine degli altri Paesi. Ambientalismo e “gastronazionalismo” sono due facce della stessa medaglia, per cui il cibo perfetto è quello che non fa male alla salute, non fa male all’ambiente e permette di ribadire che il proprio modello alimentare è migliore di qualunque altro al mondo. E quindi non c’è solo la dieta vegetariana, vegana, fruttariana e così via, ma per noi italiani c’è soprattutto la dieta mediterranea, che non è assolutamente identitaria in senso storico, ma che lo è diventata negli ultimi decenni. […]
Il ribaltamento del rapporto numerico tra produttori e consumatori di cibo, avvenuto con la Rivoluzione industriale, ha provocato anche un cambiamento degli strumenti di contrasto al potere economico. Se prima della Rivoluzione industriale il 70-80 per cento della popolazione doveva lavorare nei campi per poter garantire il cibo anche al restante 20-30 per cento, oggi il 2 per cento della popolazione attiva basta a produrre cibo per tutti. Storicamente il contadino non doveva sapere quanto fosse buono il cacio con le pere, perché se l’avesse saputo avrebbe messo in crisi l’intera economia preindustriale; oggi i contadini sono numericamente irrilevanti, almeno nella nostra parte del mondo, e quindi solo i consumatori hanno il potere di sconfiggere il capitalismo. Tanti movimenti nel mondo sono nati con questo obiettivo e in Italia, ad esempio, tale tendenza è ben rappresentata da un movimento come Slow Food. Il suo fondatore, Carlo Petrini, lo ha proprio teorizzato in molte sue opere e praticamente in tutti i suoi interventi pubblici: c’è qualcosa di profondamente sbagliato e ingiusto nel modo di vivere che il capitalismo ci impone e il consumo di cibo è l’unico strumento che abbiamo in mano per cambiarlo. I consumatori hanno il diritto di pretendere un cibo buono, pulito e giusto: «la gastronomia etica è un cammino verso la liberazione».
Il paradosso è che le scelte e le paure alimentari sono effettivamente in grado di condizionare lo sviluppo economico e i rapporti di forza tra le diverse aree. Basti pensare a cosa ha comportato nel XVI secolo per l’economia del Portogallo la diffidenza del suo popolo nei confronti del tè e del suo promettente commercio. Allo stesso modo, oggi la scelta di molti Paesi europei di vietare lo sviluppo degli ogm o di impedire la ricerca sulla carne coltivata rischia di tagliare fuori dalla competizione internazionale i sistemi agricoli di questi Stati. Il risultato non sarà quello di avere un cibo più sicuro, ma di dipendere interamente da altri Paesi per fare fronte alla domanda interna e anche per sostenere il settore della trasformazione.
Le paure alimentari, quindi, diventano il mezzo con il quale si condizionano le scelte dei consumatori e, attraverso loro, anche le scelte dei governi. Lo fa la pubblicità, lo fanno le lobby, lo fa la politica e lo fanno anche i movimenti ambientalisti e culturali. In tutto questo, la ricerca del cibo perfetto resta un’ossessione che accompagna l’uomo dall’alba della civiltà. Tra paure vere e altre indotte, alla fin fine si cerca un cibo che rassicuri; in fondo, attraverso ciò che si mangia si cerca solo di esorcizzare la paura della vita, o quantomeno ridurne l’incertezza.
L’estratto del libro:
Siamo consapevoli dell’impatto delle nostre scelte alimentari sul sistema in cui viviamo?
L’impatto ambientale maggiore è quello dovuto all’allevamento bovino. Ci siamo mai chiesti quanti bovini ci sono nel mondo? Più di un miliardo. Potrebbero essere gli abitanti di un intero continente, e a questi si aggiungono tre miliardi di ovini e caprini, un miliardo di suini e dodici miliardi di polli.
Vediamo, nei diversi Paesi, quanti bovini ci sono per abitante.
In Italia si allevano nove milioni di bovini che corrispondono a un bovino ogni 6,6 abitanti, in Europa c’è un bovino ogni cinque abitanti. Gli Europei in media mangiano più carne degli Italiani. In Sud America ci sono nove bovini ogni dieci persone, quasi uno per abitante. E in Australia la popolazione bovina supera addirittura del 40 per cento quella umana, cioè c’è quasi un bovino e mezzo per ogni abitante. In questo caso però, come anche in Sud America, buona parte della carne viene esportata.
Per rendere meglio l’idea: il 24 per cento della superficie terrestre è occupato, direttamente o indirettamente, da bovini. E se consideriamo che circa il 70 per cento è occupato da montagne, quindi inutilizzabili per qualsiasi attività, i numeri diventano davvero impressionanti.
Negli ultimi sessant’anni, un territorio grande tre volte l’Italia è stato deforestato e destinato a pascoli e terreni coltivati per produrre mangimi.
Ciò che fa impressione è proprio la sproporzione tra l’enorme quantità di bovini allevati, con relativo impiego di terreno per produrre mangimi, e il numero di consumatori della carne ottenuta.
Tutta questa carne è davvero indispensabile?
La risposta è no, la carne non è nutrizionalmente indispensabile. Il muscolo degli animali contiene nutrienti che possono arrivare anche da altre fonti di origine animale come pesce e uova. Parliamo di proteine e ferro che potremmo anche prendere dal mondo vegetale, in particolare dai legumi. Rimarrebbero escluse solo la vitamina B12 e lo zinco, che infatti sono gli unici integratori che i vegani devono assumere per non andare in carenza. Precisiamo: lo zinco, pur essendo presente nei vegetali, in questi non è biodisponibile poiché è in una forma inutilizzabile dall’organismo.
Al di là del fatto che la carne sia gradita a moltissime persone, e che piaccia la condivisione a essa collegata (chi non ama le grigliate con gli amici?), il consumo massiccio di carne dal dopoguerra a oggi è dovuto anche al fatto che è stata per molti uno status symbol: simbolo di ricchezza e di abbondanza. Da qualche decennio oramai sappiamo che l’eccesso di carne è inutile e anche poco salutare poiché può portare a diverse problematiche per la salute, tra cui quelle cardiovascolari, che sono la prima causa di morte nel mondo occidentale.
Pensate che nell’antica Roma i famosi gladiatori, con la loro forza e fisicità, si alimentavano di orzo e fagioli e per questo erano chiamati hordearii (hordeum, orzo), e il loro stato di salute era ottimo.