Anche i deputati di maggioranza che siedono nella commissione Finanze della Camera, come già fatto la settimana scorsa dai colleghi del Senato, chiedono al governo di concedere a chi aderisce al concordato preventivo biennale un’imposta sostitutiva opzionale sul maggiore reddito concordato con il fisco. Un cambio in corsa delle regole fissate con il decreto dello scorso febbraio e con le norme attuative e il correttivo arrivati a giugno, la cui unica motivazione sembra essere il timore che la misura si riveli un fragoroso flop. Perché i contribuenti che al momento l’Agenzia delle Entrate giudica probabili evasori dovrebbero accettare di pagare le tasse su cifre più alte anche di decine di migliaia di euro rispetto a quel che hanno dichiarato finora. I commercialisti stanno di conseguenza registrando tra i propri clienti un interesse limitatissimo, per usare un eufemismo. Per tentare di indorare la pillola, allora, il viceministro Maurizio Leo sarebbe pronto ad accogliere l’assist parlamentare e offrire a chi accetta una sorta di flat tax incrementale con aliquote graduate in base ai punteggi di affidabilità fiscale (Isa).
La commissione Finanze del Senato, nelle proprie condizioni, si era spinta fino a “suggerire” al governo le aliquote proposte in audizione dalle associazioni di categoria di artigiani e commercianti: 10% per chi è già ritenuto affidabile (punteggio Isa sopra l’8), 12% per chi ha un punteggio tra 6 e 8, appena sotto la sufficienza, e 15% per chi sta sotto il 6. Vale a dire che un titolare di partita Iva ritenuto evasore perché dichiara pochissimo rispetto alla media del suo settore pagherebbe percentualmente poco più di chi invece ha sempre pagato tutto il dovuto. Alla Camera l’organismo guidato da Marco Osnato (FdI) si limita invece al concetto generale, senza indicare le cifre. Spetterebbe al governo decidere, anche se l’indicazione è quella di valutare una graduazione dell’aliquota sulla base del punteggio dei soggetti Isa.
L’altra condizione è la richiesta di introdurre subito, “nel decreto legislativo in esame”, una disposizione “volta alla revisione dell’articolo 38 del D.P.R. n. 600 del 1973“, quella sull’accertamento sintetico oggi noto come redditometro, “al fine di ridefinire la portata complessiva dell’accertamento sintetico circoscrivendone l’ambito soggettivo ai grandi evasori“. Leo aveva cercato di rispolverarlo proprio come “bastone” per incentivare le adesioni al concordato, salvo provocare l’immediata levata di scudi di Lega e Forza Italia e lo stop di Giorgia Meloni. La commissione Finanze del Senato aveva chiesto – inserendola però tra le osservazioni – di “evitare di ripristinare strumenti e istituti a carattere induttivo di massa come ad esempio il cosiddetto redditometro” e Forza Italia aveva subito dato per ottenuta l’archiviazione di una “misura fiscale invasiva e indiscriminatamente vessatoria”. Dalla Camera arriva una formulazione più vicina alle intenzioni dichiarate dallo stesso Leo: lo strumento andrebbe rivisto ma non abolito.
Per il deputato dem Virginio Merola, capogruppo Pd in commissione Finanze, il concordato “è l’ennesima presa in giro per i milioni di contribuenti fedeli al fisco. Questo provvedimento correttivo conferma che il governo Meloni non ha alcun interesse nel combattere l’evasione endemica che affligge il nostro Paese, deteriorando ancora di più ogni forma di giustizia fiscale e sostenibilità economica per l’Italia”.