Lo svolgimento e l’esito del recente vertice dei 75 anni della Nato a Washington mi ha fatto tornare in mente la prognosi sulla “seconda Guerra Fredda” che Johan Galtung, il fondatore dei Peace Studies, gli studi internazionali per la pace ispirati alla triade diagnosi-prognosi-terapia, aveva fatto negli anni 2000, alla luce della “megalomania di avere tutto il mondo come propria sfera d’interesse” da parte di chi si considerava – e si considera – il “vincitore” della “prima Guerra Fredda”.

In Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare (Edizioni PLUS-Pisa University Press, 2008) Galtung diagnosticava che l’agenda geopolitica degli Usa, che prevede “l’espansione globale a est con la Nato e a occidente con l’Anpo, il Trattato di sicurezza Usa-Giappone”, ha interesse a portare le alleanze “a linee di rottura radicali ed esplosive”, che generano la “seconda Guerra Fredda” tra Usa/Anpo/Nato da un lato e Russia/India/Cina dall’altro. Ma ciò – ed ecco la prognosi infausta se non trattata – non durerà a lungo, perché la “seconda Guerra Fredda” è una formazione conflittuale forte: “Un incidente minore” – prevedeva – “lungo il confine tra Polonia e Ucraina e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con potenze nucleari dappertutto e senza alcun paese neutrale in mezzo a fare da cuscinetto, come lo furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la prima Guerra Fredda”.

Per disinnescare questo mega conflitto, prima che esso distrugga l’umanità, Galtung proponeva la sua trasformazione nonviolenta, fondata su precisi passi di disarmo e una radicale rifondazione dell’Onu, per i quali ha lavorato tutta la vita, scrivendo anche manuali di “trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici” per i mediatori delle Nazioni Unite (qui una traduzione scaricabile, a cura del Centro Studi Sereno Regis di Torino). Invece, mentre siamo nel pieno dell’eruzione bellica che produce nel cuore dell’Europa centinaia di migliaia di morti militari e migliaia di vittime civili, il vertice Nato di Washington ha pensato bene di isolare e condannare chi, seppur maldestramente e strumentalmente, sta tentando di svolgere una funzione di pompiere tra Russia e Ucraina, come quel Viktor Orbàn che ha potuto attribuirsi un ruolo di supplenza proprio grazie alla rinuncia a svolgere una vera mediazione – ben più autorevolmente – da parte dell’Unione Europea, sottomessa ad un atlantismo armato che ne ha distrutto la capacità di autonoma iniziativa politica.

Anzi, i governi europei tornano a casa dal vertice Nato con l’invio degli F16 a Kiev, l’obbligo di contribuire alla donazione di altri 40 miliardi di armi al governo ucraino e con un nuovo fardello di missili statunitensi a lungo raggio, capaci di colpire nel cuore della Russia, da installare in Europa, facendone diventare così un target le proprie capitali, a cominciare dalla Germania, con un balzo all’indietro agli anni ‘80 del secolo scorso. Una corsa al riarmo in piena regola, nonostante il fallimento di due anni e mezzo di strategia militare. Come se l’abbattimento del Muro di Berlino, le lotte dei popoli per un mondo di pace e cooperazione multipolare, il superamento della logica perversa della deterrenza, avviata con i passi di disarmo unilaterale del presidente sovietico Michail Gorbačëv che innescarono la riduzione degli armamenti e il dividendo di pace, non fossero mai avvenuti.

Anche il governo italiano rappresentato da Giorgia Meloni, oltre all’impegno immediato di trovare un miliardo e settecento milioni di euro di ulteriori armamenti da consegnare al governo ucraino, ha rinnovato l’impegno – in verità già preso dal parlamento italiano nella scorsa legislatura con un voto quasi unanime – di portare velocemente al 2% del Pil la spesa militare strutturale italiana. Ossia di aumentarla dai circa 28 miliardi di euro attuali ai circa 40 miliardi all’anno, a cominciare da un nuovi programmi pluriennali di acquisto di cacciabombardieri per 7 miliardi e mezzo e di carri armati per 8 miliardi. Si tratta – né più, né meno – di una riconversione al contrario: tagliare ulteriormente e drasticamente risorse a scuola, sanità, università, welfare e trasferirle all’industria bellica, nazionale e internazionale.

Una vera e propria economia di guerra, che anticipa il dispiegamento dei nuovi missili statunitensi anche in Italia, che già ospita decine di testate nucleari Usa, come spiega Paolo Mastrolilli su la Repubblica del 12 luglio 2024 (Gli Usa vogliono anche in Italia i nuovi euromissili anti Putin).

Tutto questo mentre Nato e Ue, che giustamente si stracciano le vesti per l’ospedale colpito a Kiev da un missile alla vigilia del vertice di Washington, usato come ulteriore motivo per armare l’Ucraina invasa dall’esercito russo – con una scelta dei mezzi incongruente rispetto al fine di ridurre le vittime, consapevoli di provocarne delle altre con il prolungamento della guerra anziché l’avvio dei negoziati di pace – si voltano invece dall’altra parte mentre continuano ad essere colpiti e rasi al suolo ospedali e scuole in tutta la striscia di Gaza (anche durante il vertice) invasa dall’esercito israeliano, che ha ucciso – direttamente o indirettamente – tra il 7 e 9% della popolazione palestinese (come rileva la rivista scientifica The Lancet, 5 luglio) in nove mesi di pulizia etnica genocida.

Un continuo e ipocrita doppio standard etico, che rende l’Occidente nuovamente e pericolosamente inviso a tutti i Sud del mondo. Se non fosse per la solidarietà tra i movimenti pacifisti internazionali che – come ai tempi dell’opposizione popolare agli euromissili – dovranno riprendere in mano i manuali di formazione alla teoria e pratica della nonviolenza, che comprendono anche l’obiezione di coscienza individuale e la disobbedienza civile collettiva. Ossia, dopo la diagnosi e la prognosi, la sola terapia che ci può salvare.

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