di Enrico Carloni*
In attesa che si completino gli ultimi passaggi formali della riforma Nordio, è utile continuare a riflettere sulle ragioni che hanno motivato l’abolizione, ormai imminente, del reato di abuso di ufficio, ma soprattutto sui “vuoti” che ne derivano: relativamente a tutele delle quali l’ordinamento deve continuare a preoccuparsi.
Certo sono molte le riserve sulla decisione del legislatore riguardo alla scelta di abrogare l’art. 323 del codice penale. Per quanto si trattasse di un reato “residuale” e per questo accusato di essere “generico”, e quindi in grado di determinare paura della firma, esponendo al rischio di un sindacato sull’esercizio delle funzioni pubbliche discrezionali, si trattava di un reato tutt’altro che “marginale”: dopo l’abolizione del reato di interessi privati in atti di ufficio, di qualche anno addietro, l’abuso di ufficio si presenta(va) infatti “come momento centrale di tutela rispetto alle condotte di abuso, caratterizzate da fini di favoritismo, prevaricazione o comunque di indebito profitto”.
Apparivano dunque davvero prevalenti le ragioni per il suo mantenimento, magari con una migliore precisazione che superasse anche i limiti della riforma del 2020 (dopo la quale ad essere contestabile era solo la decisione vincolata, in violazione di specifiche regole di rivolte a definire un’azione priva di margini di discrezionalità, o presa in situazione di conflitto di interessi).
Assunta la scelta legislativa, pare ora utile riflettere sulle mancanze che ne risultano, in particolare in termini di possibilità di contestare le condotte dei funzionari pubblici – ma soprattutto in termini di protezione dei cittadini di fronte ad abusi di potere, e di tutela degli interessi pubblici che devono guidare l’azione amministrativa. L’abuso di ufficio, se inteso correttamente, era infatti l’estremo presidio dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, e il suo svuotamento (prima) e abolizione (ora) lascia il sistema con meno anticorpi.
I reati dei pubblici ufficiali definiscono d’altra parte indirettamente le condizioni di garanzia degli individui di fronte ad un esercizio del potere che non può mai essere arbitrario, e se l’introduzione di una nuova figura di reato va fatta con prudenza e cautela, la stessa cautela è necessaria di fronte a scelte abrogatrici. Occorre infatti sempre osservare le questioni, come insegna Bobbio, ex parte populi oltre che ex parte principis. E non sfugge la sensazione che a prevalere, in questo periodo, sia la ragione di chi ha il potere, a scapito delle ragioni di chi è destinatario dell’esercizio del potere: un destinatario che, a fronte di un potere incontrollato, torna suddito.
E allora vale la pena tornare sulle ragioni di garanzia, di garantismo, che stavano dietro la criminalizzazione dell’abuso di potere, che nel nostro ordinamento ha assunto tradizionalmente la forma dell’abuso di ufficio, come figura di chiusura intesa a contenere il rischio di un esercizio delle funzioni pubbliche fatto a fini privati, a volte anche con intento di prevaricazione.
Immaginiamo l’ipotesi di un funzionario pubblico (burocratico, o elettivo) che scientemente, addirittura palesemente, scelga di utilizzare i suoi poteri (quei poteri che la Costituzione riconosce siano “affidati” a chi li adempia “con disciplina e onore”, “al servizio esclusivo della Nazione”, con “imparzialità”) a danno di un cittadino nei confronti dei quali nutra un risentimento. Magari perché non si è piegato a un suo capriccio, o non ha ceduto alle sue pretese. Quale la figura di reato che ci protegge, che rende la vicenda conoscibile (dal giudice), sindacabile, che permette a ciascuno di invocare quel “giudice a Berlino” che dall’età dei Lumi è visto come ineludibile condizione di garanzia di fronte alle prevaricazioni? Prima, l’abuso di ufficio, e ora? Il problema non si pone più?
Come continuare a fornire adeguata garanzia a quei diritti che devono essere “inviolabili” (art. 2), all’uguaglianza dei cittadini specie di fronte all’amministrazione (art. 3)? Come assicurare che l’amministrazione continui ad essere imparziale se il legislatore le dice che può operare senza che questo sia reato, in danno di singoli anche in palese violazione di specifiche regole e persino in conflitto di interessi (perché questo è l’esito dell’abrogazione di un reato che oramai conteneva solo di fronte a questi rischi)? Come spiegare ai “capaci e meritevoli” che i concorsi possono essere truccati a vantaggio di clienti e parenti, senza che queste vicende siano illuminate dall’indagine giudiziaria? Quanta Costituzione è tradita da questa riforma, e quanto poco se ne parla.
C’è chi sostiene che un’adeguata garanzia della “vittima” possa risiedere nei ricorsi al giudice amministrativo: ma come per altri reati di “corruzione” chi è leso da condotte criminali spesso non ne è consapevole, e le “carte” possono essere fatte tornare. Si pensi, ad esempio, a un concorso in cui si faccia avere ad un candidato di nascosto la traccia della prova. Poi, certo, si può anche discutere della compatibilità di questi cambiamenti rispetto alla convenzione Onu contro la corruzione (rispetto alla quale la scelta di prevedere questo reato non è obbligata, ma non è neppure liberamente e pienamente rimessa alla scelta dello Stato), o rispetto alla prossima Direttiva europea anticorruzione (che non è chiaro se prevederà come obbligatorio questo specifico reato, ma che arriverà in ogni caso a cose fatte).
Ma il problema è più profondo: l’abuso di ufficio parlava all’amministrazione e alla politica, forse spaventandole, ma anche ammonendole: i diritti dei cittadini e il valore costituzionale dell’imparzialità, della cura dell’interesse pubblico, sono prioritari. Si può meglio tipizzare il reato, sicuramente, ma lasciare privi di protezione i concorsi pubblici (salvo una, credo, necessaria rilettura, costituzionalmente orientata, della turbativa d’asta) e lasciare sguarnita la prevaricazione del pubblico ufficiale sono errori enormi, incostituzionalità gravi, un tradimento di quella “fiducia” che si afferma come necessaria ma che non può dipendere da un atto di imperio ed essere invocata “al buio”.
* Professore ordinario di diritto amministrativo, docente di Politiche di anticorruzione e trasparenza nell’Università degli studi di Perugia