Mentre prosegue l’immobilismo del Parlamento che non ha ancora provveduto a regolare la materia, arriva un nuovo intervento della Consulta sul fine vita. La Corte costituzionale ha ribadito oggi che i requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019 (quella sul caso di Dj Fabo) ma precisa che la nozione di “trattamenti di sostegno vitale” deve essere “interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio” di quella sentenza. La Consulta spiega che la sentenza di 5 anni fa “si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività“. E sottolinea che “la nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo“. Quindi non solo, in senso stretto, il macchinario che tiene in vita il paziente.

Quella della Corte costituzionale è stata una sentenza “interpretativa di rigetto”, nel senso che ha rigettato le questioni di legittimità ma ha precisato la decisione precedente. La Consulta ha, infatti, sottolineato che, “ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali“. La Corte continua ancora a invitare il Parlamento ad approvare una legge citando, nella decisione odierna, la “perdurante scelta del legislatore di non intervenire, malgrado le ripetute sollecitazioni, con una normativa organica che disciplini anche ulteriori fattispecie non toccate dall’intervento di questa Corte”.

Le questioni nascevano da un procedimento penale contro Marco Cappato, rappresentante legale dell’Associazione Soccorso Civile, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che hanno accompagnato in una clinica in Svizzera Massimiliano, toscano 44enne malato di sclerosi multipla, per poter ricorrere al suicidio medicalmente assistito. Il gip si Firenze ha rilevato che il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza, determinata da una patologia irreversibile e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole (3 dei 4 requisiti stabiliti dalla Consulta nella sentenza del 2019) ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Il gip pertanto ha ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte e ha chiesto alla stessa Consulta di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel giudizio di legittimità costituzionale è stato ammesso l’intervento anche di due donne affette da analoghe patologie, a sostegno delle questioni prospettate.

Critiche alla sentenza arrivano da Antonio Brandi, presidente di Pro Vita & Famiglia: apprezzando che la Corte ha negato “l’esistenza di un diritto assoluto a decidere come e quando morire e chiudendo la porta a una disciplina indiscriminata sul suicidio assistito e sull’eutanasia”, Branfi definisce “gravissima l’interpretazione estensiva della Corte sulla definizione di ‘trattamenti di sostegno vitale’, includendo anche pratiche di assistenza sanitaria alla persona non a diretto supporto delle funzioni vitali di base”. Per il presidente di Pro Vita “a seguito di questa interpretazione aumenta il numero di casi in cui si potrà aiutare una persona a suicidarsi, velocizzando la tragica deriva eutanasica che la Consulta ha inaugurato con la sentenza 2019 sul caso Dj Fabo”.

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