“Riforme“, “modernizzazione in stile cinese”, “nuove forze produttive” e “giustizia sociale”: sono alcune delle parole chiave contenute nel rapporto del terzo plenum del Partito comunista, la riunione plenaria che ogni cinque anni riunisce i membri del Comitato centrale, uno degli organi decisionali più importanti, per dettare le linee politiche programmatiche per gli anni a venire. Quelle parole sono anche la chiave per far ripartire la crescita economica (scesa al 4,7%) e traghettare la Cina tra le intemperie di un contesto internazionale sempre più ostile. Con la consapevolezza che senza un modello di sviluppo più sostenibile il gigante asiatico non rischia solo di perdere la competizione per la leadership globale. In gioco c’è anche la stabilità sociale e la legittimità politica di una classe dirigente che fino a oggi ha saputo compensare il crescente controllo sulla popolazione con la capacità di assicurare benessere economico.
Riforme, dicevamo. Il rapporto, per ora molto vago, anticipa l’introduzione di nuovi provvedimenti che saranno confermati più nel dettaglio nei prossimi giorni. Come da tradizione, il terzo plenum coincide infatti con l’annuncio di importanti misure economiche. Nel 1978 Deng Xiaoping annunciò la politica della porta aperta, nel 1993 il successore Jiang Zemin formalizzò l’adozione di “un’economia socialista di mercato“. Nel 2013, appena assunta la presidenza, Xi parlò di un “ruolo decisivo del mercato nell’allocazione delle risorse”. Da allora però quelle promesse sono state mantenute solo in parte. Al contrario, il Partito-Stato è tornato a guidare la macchina economica, mentre Xi ha strappato il volante al primo ministro, fino dagli anni ’90 in poi titolare del portafoglio economico. Le “riforme” approvate questa settimana difficilmente invertiranno quella tendenza verso la centralizzazione. Ma di riforme effettivamente si tratta, anche se forse non di quelle sperate dall’Occidente.
Escluso un arretramento del potere statale, nuove misure lasciano ugualmente spazio a un maggiore coinvolgimento del settore privato, sacrificato negli ultimi quattro anni a beneficio di un crescente controllo del governo sui comparti strategici o con un forte impatto sociale. “Dobbiamo consolidare e sviluppare fermamente l’economia pubblica, incoraggiare, sostenere e guidare fermamente lo sviluppo dell’economia non pubblica, garantire che tutti i tipi di economie proprietarie abbiano un utilizzo paritario dei fattori di produzione in conformità con la legge, partecipare equamente alla concorrenza di mercato”, si legge nel rapporto. Compaiono inoltre riferimenti alla necessità di stabilizzare il mercato immobiliare, contenere il debito delle amministrazioni locali e ridurre le diseguaglianze sociali, soprattutto tra aree urbane e rurali. Proposito quest’ultimo funzionale a rilanciare i consumi interni e ridimensionare il ruolo dell’export, il comparto in più rapida crescita ma troppo esposto alle incertezze internazionali.
Il tutto con uno scopo ambizioso: trasformare la Cina in un “paese a sviluppo medio” entro il 2035. Il che vuol dire aumentare il Pil pro capite dagli attuali 12.600 dollari a oltre 20.000 dollari. Obiettivo secondo gli esperti raggiungibile solo mantenendo tassi di crescita attorno al 5% annuo. Soltanto così il gigante asiatico potrà dribblare la cosiddetta trappola del reddito medio, replicando il successo della Corea del Sud. Per riuscirci occorre però aumentare la produttività attraverso l’innovazione così da compensare la contrazione demografica e il calo di capitali, soprattutto degli investimenti esteri sprofondati ad aprile del 27,9% su base annua a causa del clima politico interno nonché delle tensioni con Stati Uniti ed Unione Europea. Nei piani di Pechino a trainare la crescita saranno quindi le “nuove forze produttive“, ovvero l’alta tecnologia, soprattutto quella legata alla transizione ecologica. Anche nell’ottica di ridurre la dipendenza dai fornitori occidentali, sempre meno disposti a condividere know how con un “rivale sistemico”. “Per promuovere la modernizzazione in stile cinese, dobbiamo aderire all’indipendenza, alla fiducia in noi stessi e al rafforzamento di noi stessi, tenendo saldamente nelle nostre mani il destino dello sviluppo e del progresso”, spiegava giorni fa un articolo comparso sulla rivista del partito Qiushi.
Il traguardo finale consiste nella “rinascita della nazione cinese entro il 2049”, ovvero per il centenario della Repubblica popolare. La missione, altamente simbolica, ha una duplice scopo: innanzitutto rendere la Cina una superpotenza globale, riparando l’onta subita per mano dell’occidente durante il “secolo dell’umiliazione“, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900. “Mentre il mondo sta attraversando profondi cambiamenti, la comunità internazionale può vedere chiaramente quale grande potenza può offrire coerenza e stabilità, e quale invece è più imprevedibile e piena di rischi”, commentava sul Global Times un accademico cinese all’indomani dell’attacco contro Donald Trump. In secondo luogo, elevare lo status del paese permetterebbe anche di assicurare al suo presidente un posto nella storia: “Xi Jinping il riformatore”, scriveva giorni fa l’agenzia di stampa statale Xinhua attribuendo al leader oltre 2000 “misure di riforma” negli ultimi dieci anni: dalla sconfitta della povertà assoluta, allo sviluppo delle aree rurali passando per la repressione della corruzione e la lotta all’inquinamento. Tutti temi menzionati anche nel rapporto del Comitato centrale.
Portare a termine la missione non sarà facile. Secondo Mobo Gao, professore di chinese studies presso l’università di Adelaide ed esponente della “nuova sinistra” cinese, “mancano misure coerenti per andare avanti nell’attuale contesto di rallentamento economico e competizione internazionale”. Xi – spiega l’esperto al Fattoquotidiano.it – “vuole le riforme ma non vuole che il sistema crolli come avvenuto nell’Unione Sovietica. L’idea è quella di procedere secondo il principio xinli houpo (先立后破). “Invece di distruggere brutalmente il vecchio per istituire il nuovo, è meno doloroso istituire gradualmente il nuovo per sostituire il vecchio”, chiarisce Gao che segnala due importanti provvedimenti già evidenti: “Una sorta di economia collettiva da sviluppare nella Cina rurale. In altre parole, la privatizzazione su vasta scala delle terre rurali è fuori dall’agenda. L’altro è lo stanziamento di maggiori risorse per le industrie high tech e new tech. Ai funzionari di partito e di governo a tutti i livelli è stata ora aggiunta una responsabilità in termini di innovazione e sviluppo delle nuove tecnologie”.
A complicare il quadro concorrono le variabili esterne. La debolezza del mercato domestico rende ancora indispensabile fare affidamento sulla domanda internazionale. Ma in America ed Europa le “nuove forze produttive” fanno rima con sussidi statali e sovracapacità industriale. Ovvero concorrenza sleale. Mercoledì l’Organizzazione mondiale del commercio, annunciando la prima revisione delle politiche commerciali di Pechino dal 2021, ha criticato “la mancanza di trasparenza della Cina” che “non consente di avere un quadro generale chiaro” degli incentivi concessi alle imprese nazionali. Specialmente per quanto riguarda “l’alluminio, i veicoli elettrici, il vetro, la costruzione navale, i semiconduttori o l’acciaio”.
Atteso per l’autunno del 2023, il plenum è stato ritardato di diversi mesi forse proprio a causa di dissidi interni. Davanti alle difficoltà del contesto economico e geopolitico non tutti sono d’accordo sulla strada da seguire. “La resistenza interna è evidente”, spiega al Fattoquotidiano.it Gao, “Xi qualche anno fa aveva avvertito severamente che “le case vengono costruite per vivere, non per speculare”, ma senza grande impatto. La bolla immobiliare è continuata a gonfiarsi. L’élite intellettuale, soprattutto quella influenzata dall’Occidente, è ostile a Xi. Il discorso sull’imposizione di un’imposta sulla proprietà immobiliare va avanti da anni ma non si è concretizzato. L’altro ambito è la riforma sanitaria. Molto dura e così dura che la repressione della corruzione nel settore si è interrotta bruscamente, credo l’anno scorso”, dice l’esperto.
E poi resta da fare pulizia tra le fila del partito e dell’esercito. “Da tempo circola l’idea di un registro pubblico dei beni personali e familiari dei funzionari governativi. La questione è stata sollevata quasi ogni volta che è stata convocata l’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento ndr). Ma non si è riusciti a implementarlo”, afferma Gao. Dallo scorso anno tre membri del Comitato centrale sono stati indagati per corruzione, compreso l’ex ministro della Difesa Li Shangfu. “La modernizzazione della difesa nazionale e dell’esercito sia una parte importante della modernizzazione in stile cinese”, conferma il rapporto. Nessuna accusa invece per l’ex ministro degli Esteri Qin Gang, che stando a quanto annunciato al termine del plenum ha “presentato le dimissioni” e non è più un membro del Comitato centrale. Considerato molto vicino a Xi, il funzionario aveva lasciato il dicastero lo scorso luglio per “motivi di salute“.